Arte e politica, la relazione pericolosa

Un saggio ripercorre i condizionamenti ideologici, ed economici, del potere
Un saggio ripercorre i condizionamenti ideologici, ed economici, del potere

In un testo del 1953, lo scrittore John Berger sottolineava così la sua visione del mondo: «Non sono assolutamente io che trascino la politica nell’arte, è l’arte che mi ha trascinato nella politica». La lettura del presente sembra abbia spinto anche Demetrio Paparoni (siciliano di Siracusa, 60 anni, critico e curatore di mostre d’arte contemporanea) a riflettere su un punto molto delicato (e poco frequentato) del sistema dell’arte: l’intreccio con la politica, i suoi condizionamenti, le pressioni dei poteri economici. Paparoni, che ha un passato anche di editore e quindi abituato a intercettare tendenze nel tessuto sociale (ha fondato «Tema Celeste», una rivista cult negli anni Novanta) ha cercato una risposta a una domanda precisa: l’arte è davvero libera? E l’arte che oggi vediamo nei musei, o nelle gallerie a prezzi stellari risponde a un sistema occulto?
Alcune risposte le troviamo nel volume in libreria da oggi con un titolo che ci riporta ai film western degli anni Settanta: Il bello, il buono e il cattivo (Ponte alle Grazie, pagine 420, € 26) quasi a sottolineare che in un momento di crisi come quello attuale, i concetti di bello , di buono e di brutto si articolano dentro un sistema di categorie e finzioni dove ognuno gioca un ruolo mai dichiarato apertamente. Dove sta dunque la bellezza? Ma esiste poi la bellezza? Chi è il buono? L’artista, forse? E chi il cattivo? Solo il sistema finanziario che manipola il mercato?
Paparoni, con un linguaggio diretto, da cronista, ricostruisce i ruoli di alcuni protagonisti (da Goering a Leni Riefenstahl, da Picasso a Stalin, da Gorky a Peggy Guggenheim, sino a Hirst e Pinault), rilegge i fatti, esamina le correnti più significative del Novecento, arrivando sino ai giorni nostri e a quella che l’autore definisce «l’ideologia di mercato dell’era post-ideologica». L’autore traccia un percorso articolato, diviso per capitoli (26) che va dalle prime battaglie a distanza per conquistare un’egemonia culturale tra Europa e Stati Uniti, (L’Harmony Show e il tappetino Navajo di Theodore Roosevelt ) sino alle recentissime forme di dissenso degli artisti cinesi, (I Nobel della discordia. Gao Xingjian, Liu Xiaobo, Mo Yan e l’attivista Ai Weiwei ).
L’arte dei dittatori moderni
Più che un saggio rigoroso e severo di storia dell’arte (rivolto solo agli addetti ai lavori), il libro si presenta come un intenso racconto sui protagonisti degli ultimi cent’anni, mescolando fatti, documenti, testimonianze, stralci di libri, il tutto senza un vero percorso temporale, ma attraverso assonanze (L’arte dei dittatori moderni ), riferimenti culturali (Le matrici ebraiche dell’Espressionismo astratto ) o magari geografici (New York, caput mundi ). Un libro che, come sottolinea lo stesso autore, «nasce dal bisogno di non sottrarsi a un senso di responsabilità sociale». Nella prefazione scrive: «È bene ricordare che tanto i totalitarismi quanto i sistemi democratici hanno sistemato l’arte per legittimare la propria egemonia politica». E Paparoni, con la volontà di non alimentare alcuna speranza sulla completa libertà degli artisti, conclude: «Questo continua ancora ad accadere».
Certo, si sa che l’arte è ideologia. Sempre. Quando si dice che un artista crea privo di un’intenzione politica, animato solo da fini estetici, anche in quel caso si afferma una precisa ideologia dell’arte: l’idea (crociana) del bello assoluto, della solitudine dell’artista, dell’astrazione dal mondo. E, se al contrario, un’arte si dichiara impegnata, questa va comunque in una definizione limitata, in qualche modo sbagliata. L’arte, come ogni forma di comunicazione, dipende dalla committenza, dalla sua fruizione e, ovviamente, dall’uso. Comunque sia, l’arte è un linguaggio ideologico all’interno di un percorso storico. Su questo pensiero si muove l’autore mettendo in relazione protagonisti ed eventi, denunciando anche alcuni luoghi comuni della critica: «Leni Riefenstahl è stata tutt’altro che una grande artista e ancor oggi la sua notorietà è la conseguenza dell’enorme macchina propagandistica messa in moto dal regime per sostenerla». Il volume analizza in particolare le trasformazioni della scena dell’arte e come gli artisti si siano adeguati o si siano contrapposti all’ideologia del momento. Ma attenzione: chi si aspetta inedite rivelazioni rimarrà deluso. «Non è un libro che racconta di complotti. È un libro che racconta fatti rapportandoli all’aspetto teorico del lavoro degli artisti», spiega l’autore.
Parlando del fascismo, ad esempio, Paparoni sottolinea la mancanza di sensi di colpa degli artisti italiani rispetto a quelli tedeschi: «Non c’è nulla nella storia dell’arte italiana che testimoni l’urgenza di catarsi che si ritrova in tele come Tante Marianne o Onkel Rudi di Gerard Richter o in Besetzungen di Anselm Kiefer». E su questo tema cita come esempio italiano l’Hitler inginocchiato di Cattelan. Ci sono anche aneddoti per spiegare la politica culturale del fascismo: riprendendo il testo biografico di Giulia Mafai dedicato a suo padre Mario, Paparoni dimostra come fosse organica la strategia di ottenere l’adesione degli artisti e degli intellettuali al fascismo. In quel caso Mafai non aderì alle lusinghe e ai compensi d’oro. E tra le righe critica chi (come Andrea Camilleri) con una certa indulgenza guarda a Bottai come un «gerarca intellettuale e colto».
Sul legame con il potere cita anche Renato Guttuso: «Rispondendo ai canoni del realismo socialista I funerali di Togliatti evoca sul piano formale le posizioni di quanti in Europa e in Unione Sovietica si riconobbero nei principi estetici del Comitato centrale del Partito comunista sovietico che nel 1934 aveva peraltro vietato ogni forma di arte indipendente dal controllo dello Stato». E su questo aggiunge: «Non si vuole mettere in discussione la libertà di Guttuso (…): la questione non riguarda il cosa ma il come : è il linguaggio (il come ) che determina la qualità dell’arte». E conclude: «Va sottolineato che dipingendo un quadro celebrativo che rispondeva ai dettami del Realismo sovietico, Guttuso ha accettato quel che Picasso ha sempre rifiutato».
Infatti, si ricorda quando, in occasione della morte di Stalin, su richiesta di Aragon, per il settimanale culturale del partito, Picasso realizza un ritratto del leader sovietico. «Il disegno volutamente poco elaborato fu visto dai lettori come una caricatura. Indignati i lettori protestarono, il segretario del partito biasimò l’accaduto e Aragon si vide costretto a dichiarare pubblicamente che Picasso, disinteressandosi dei sentimenti delle masse, aveva privilegiato la creatività individuale».
Il libro parla prevalentemente di fatti noti agli addetti ai lavori, come ad esempio il coinvolgimento della Cia per l’affermazione dell’arte americana, ma crea soprattutto collegamenti, relazioni, suggestioni: «Il percorso politico di Picasso e le strategie occulte della Cia nel sostenere gli espressionisti astratti aiutano a mettere a fuoco la differenza sostanziale fra i metodi adottati nell’Urss e quelli in atto negli Usa. Contrariamente a quanto accadde in Unione Sovietica negli Stati Uniti non ci sono state vere imposizioni agli artisti, non si è fatto cioè dell’Espressionismo astratto un’estetica di Stato».
E sull’intervento politico del governo americano nel dare fondi e organizzare mostre, l’autore sottolinea come queste azioni hanno penalizzato in maniera sostanziale anche l’Italia: «Che l’Espressionismo astratto americano sia stato più potente dell’Astrattismo francese è indubbio: non lo è altrettanto che lo sia di quello spagnolo (si pensi ad Antoni Tapies) e italiano (si pensi a Fontana e Burri)». Così, con l’unione di documenti, testimonianze, o frammenti di saggi di storici dell’arte, Demetrio Paparoni ripropone una chiave di lettura per comprendere gli scenari dell’attuale sistema dell’arte. C’è però la difesa degli artisti, in qualche modo ignari e usati a loro insaputa come arma politica per sconfiggere il comunismo: «Sarebbe una forzatura considerare gli artisti complici della politica. Pollock e de Kooning non sono espressione della Cia come Michelangelo e Caravaggio non lo sono della Chiesa cattolica».
Verso la fine del libro l’autore si sofferma sulla nascita di una nuova ideologia, molto potente e trasversale: quella della finanza internazionale. «Dagli anni Novanta in poi, definitivamente entrata nella post-storia una volta rotta l’unità tra economia e politica che aveva caratterizzato gli Stati-nazione, l’arte si è trovata a dover scegliere nuovamente da che parte stare. La finanza internazionale, divenuta un vero potere occulto, ha cercato allora il sostegno degli artisti. Un sostegno che non poteva più essere manifestato attraverso proclami, ma attraverso strategie più sottili, come, per esempio, concepire il proprio nome come un brand, o mettersi al servizio di un brand; produrre opere esplicitamente indirizzate ai grandi investitori; affermare la supremazia delle case d’asta sulle gallerie private; legittimare il ruolo museale di gallerie private concepite come multinazionali; vanificare l’autonomia della critica a totale vantaggio del potere del mercato».
E Paparoni fa riferimento ad artisti come Hirst o Koons o Murakami o a uomini come Pinault o Saatchi, a galleristi come Gagosian, veri protagonisti (nel bene e nel male) delle sorti dell’arte contemporanea: «La finanza internazionale ha imposto a livello planetario una nuova visione del mondo e alcuni artisti l’hanno fatta propria. Questa visione del mondo, legata al concetto di Postmodernismo, muove dal presupposto che la storia non può essere più raccontata in relazione a eventi che hanno segnato lo scontro tra due grandi sistemi ideologici del Novecento».
Democrazia, valore da esportare
Il libro si chiude con un osservatorio verso la nuova frontiera della Cina, di cui Paparoni è attento osservatore. È amico degli artisti più famosi e da anni segue Ai Weiwei, oggi considerato l’artista più influente «non per quello che ha prodotto sul piano formale, ma per la sua capacità di mettere l’arte al servizio della lotta per la libertà di espressione in Cina». Quella cinese, è il caso di dirlo, rappresenta l’arte della censura. «Il successo di Ai Weiwei fuori dalla Cina è legato alla visione che l’occidente ha della democrazia, che considera un valore da esportare».
In questo lungo percorso dell’arte, della libertà e della dittatura, Demetrio Paparoni dedica le ultime pagine a una riflessione amara che è anche un monito: «Nel nuovo millennio, l’impossibilità di rimanere estranei alle logiche generate dall’ideologia di mercato dell’era post-ideologica pone nuove questioni etiche cui l’artista non si può sottrarre, come non vi si può sottrarre la critica che, laddove svolga un ruolo di cassa di risonanza delle esigenze del mercato, nega il suo ruolo, che è quello di far riflettere sul valore estetico e sociale dell’arte». Ha proprio ragione Berger: l’arte trascina tutti noi nella politica.

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