">

POVERI MA CONNESSI

Tyler Cowen: “Perché Internet sta distruggendo la classe media”. Intervista all’economista americano: “La Rete rafforza solo i grandi successi e contribuisce alla disuguaglianza” 
Tyler Cowen: “Perché Internet sta distruggendo la classe media”. Intervista all’economista americano: “La Rete rafforza solo i grandi successi e contribuisce alla disuguaglianza” 

Il lusso supremo è potersi sdraiare in una Med-Bay.
Pensate a una Tac che però guarisce ogni malattia. I fortunati abitanti di un satellite artificiale della Terra possono farlo quando vogliono. I poveri, che vivono in quel sottomondo che nel frattempo è diventato il nostro pianeta, come disperati in fuga verso una Lampedusa intergalattica sono disposti a tutto per potercisi curare.
Elysium, ovvero la diseguaglianza nel 2154, secondo Hollywood. C’è più di un punto in comune con Average Is Over, “La media è finita”, il nuovo libro di Tyler Cowen, economista eclettico della George Mason University che preconizza una polarizzazione sempre più feroce della società. Ma, rispetto alla finzione cinematografica, puntualizza che a livello globale la disparità economica si è ridotta: «È cresciuta all’interno di certi Paesi, mentre miliardi di persone uscivano dalla povertà. E poi, tornando al film, se quella sarà la vita dei ricchi, è di una noia mortale. Con la paura perenne che qualcuno tolga loro i privilegi. Quale che sia il nostro conto in banca stiamo meglio che su Elysium».
Lei però profetizza un futuro prossimo diviso in due classi: i rimpiazzati dalla tecnologia e quelli che le sopravviveranno. Dove mette il confine?
«Ognuno si faccia una domanda semplice: computer e software intelligente aumentano il valore del mio lavoro o gli fanno concorrenza? Se la risposta è la seconda, è solo questione di tempo prima che vi battano. Ma non caratterizzerei la divisione col termine “classe”, almeno non nell’accezione europea. Buona parte della classe medio-bassa del futuro sarà formata da bohemians bene istruiti la cui vita non assomiglierà a quella dei poveri urbani di oggi. Ci saranno anche molte opportunità, compresa tanta buona istruzione disponibile online, gratis o quasi. Quanti vorranno lavorare duro per avere salari più alti? Direi tra il 10-20 per cento, mentre gli altri si accontenteranno».
Nello scenario che lei descrive vige una iper-meritocrazia. Dovremo festeggiare o preoccuparci dei suoi eccessi?
«La premessa è che ogni cosa fatta con un computer è facile da misurare e valutare. I risultati quindi saranno agrodolci. Di recente sul
New York Times c’era la storia di un ragazzino mongolo che ha seguito un corso online di fisica al Mit, rivelandosi bravissimo. Di colpo si è aperto per lui un futuro radioso. Ma così, chi viene valutato negativamente da piccolo, rischia di non avere una seconda possibilità. La meritocrazia è psicologicamente pesante perché ci ricorda costantemente i nostri fallimenti. Di ogni giornalista oggi, a differenza di prima, si sa esattamente quante persone leggono i suoi articoli sul web. E sarà così in sempre più settori».
Stiracchiando il suo titolo, si può dire che anche la classe media sparirà. Sei lavori persi su dieci vengono dai suoi ranghi. Di chi è la colpa?
«Di cosa, piuttosto. Sia negli Stati Uniti che in Europa, al di là della crisi della domanda, ci sono tre forze all’opera contro la partecipazione al lavoro: 1) l’automazione grazie a software sempre più intelligenti; 2) la globalizzazione, intesa soprattutto come la competizione della Cina; 3) modi
migliori per valutare il valore di un lavoratore. Con i quali si scopre che molti non valgono il proprio salario. Non sorprende quindi che vengano licenziati, non trovino nuovi posti o finiscano con i sussidi. Tendenze che non spariranno. Anzi».
Jaron Lanier, tecno-entusiasta pentito, ha scritto che è stato Internet a distruggere la classe media. A riprova mette a confronto gli organici di giganti della new economy rispetto a quelli della old economy. Ha ragione?
«Anch’io usai un esempio analogo nel libro The Age of the Infovore.
General Motors impiegava centinaia di migliaia di persone, Facebook e Twitter solo migliaia.
L’automazione oggi sostituisce più lavoro di quanto ne crei, dal momento che lavorare coi pc necessita più addestramento e preparazione. Freelance e part-time conosceranno un’esistenza finanziaria più precaria che in passato. Questo mentre il numero di posti manifatturieri decresce. Peraltro l’automazione entra oggi in comparti che le si credevano immuni, come la professione legale, l’insegnamento universitario, il trasporto su gomma e i fast food».
Un recente articolo di Newsweek spiegava come, da una parte, le reti esaltino e diano accesso teorico al meglio di ogni professione, creando star. Mentre dall’altra, l’automazione cancelli le professioni a basso valore aggiunto. C’è una via d’uscita da questa morsa?
«Credo che il timore riguardo alle reti sia un po’ esagerato. In realtà la rete aiuta anche gli sconosciuti a trovare un pubblico. Rafforza i grandi successi, ma valorizza anche le piccole nicchie. Resta fuori, anche qui, la parte media. Complessivamente, tuttavia, non abbiamo mai avuto tanta scelta, e ciò è buono».
A chi mette in guardia dalla sempre più forte concorrenza intellettuale delle macchine c’è chi ribatte «basta che gli umani imparino a fare cose più sofisticate ». Lei crede che sia facile, che tutti possano diventare più creativi?
«Mi spiace dirlo, ma credo proprio di no».
E allora non c’è niente che si possa fare per difenderci? Prima sono stati gli operai cinesi, ora i robot…
«È una gran cosa vedere che gli operai cinesi oggi guadagnino meglio. Se un Paese introducesse forme protezioniste, l’effetto sarebbe di far fuggire altrove il capitale e i lavoratori starebbero comunque peggio. Il protezionismo non ha mai funzionato nel lungo periodo. Né è pensabile bandire i robot: pensate ai vantaggi per un anziano che presto potrà andare in giro su auto senza pilota. E lei ci starebbe a rinunciare al suo smartphone? Più fattibile invece è ridurre il costo di adattamento a questi cambiamenti inarrestabili. Ad esempio rendere più abbordabili gli affitti liberalizzando le costruzioni e consentendo una maggiore densità urbana. O, quanto all’Italia, tra le altre cose, aprire il settore dei servizi a una maggiore concorrenza e riformare i governi locali ».
L’esito finale che immagina è una società con una disuguaglianza economica ancora maggiore. Ma, come ci ricorda Robert Reich, il 70 per cento del Pil deriva dai consumi della classe media. Che conseguenze sociali può avere il suo progressivo immiserimento?
«I redditi sono sempre più diseguali, ma il trend più importante è l’invecchiamento della popolazione. E ciò rende la società non meno, ma più stabile. Non dimenticate che la diseguaglianza è in aumento dagli anni 80 eppure i tassi di criminalità si sono abbassati. New York, la città più disuguale, è anche la più sicura. Il nostro periodo di turbolenze, gli anni 60, sono stati il momento d’oro per la classe media. Perciò mi aspetto un futuro socialmente stabile, sin troppo. Mai sottostimare l’attrattiva del disimpegno o il potere degli anziani di imporre il proprio volere su una società. E i vecchi aumentano anno dopo anno».

************

ISTAT, CALANO I LETTORI IN ITALIA
Le donne leggono più degli uomini. Ma solo il 13 per cento sfoglia almeno un titolo al mese
ROMA
— La quota di lettori di libri in Italia è scesa dal 46 per cento del 2012 al 43 per cento del 2013. Lo dichiara un’indagine dell’Istat. Nel 2013, si legge nello studio, oltre 24 milioni di italiani con un’età superiore a 6 anni hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. Ma, di questi, il 46,6 per cento ha letto al massimo tre libri in dodici mesi. I “lettori forti”, invece (cioè le persone che leggono almeno un libro al mese), sono solo il 13,9 per cento del totale. Una famiglia su dieci, inoltre, non possiede nemmeno un libro in casa. La fascia di età in cui si legge di più è quella tra gli 11 e i 14 anni (57,2 per cento).
Netta la differenza tra i due sessi: secondo l’Istat, in Italia ha letto almeno un libro il 49,3 per cento della popolazione femminile e solo il 36,4 di quella maschile. La propensione alla lettura, spiega il rapporto, dipende dalla scuola ma anche dall’ambiente familiare: leggono libri il 75 per cento dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni con entrambi i genitori lettori, contro il 35,4 per cento di quelli con genitori che non leggono. Permangono, infine, le differenze territoriali: al Nord legge oltre la metà della popolazione (il 50,7 per cento), al Centro il 46,8 per cento, mentre al Sud e nelle isole la quota di lettori è pari solo al 30,7 per cento.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password