Fingendosi immigrato firmò la sua inchiesta più famosa, “Faccia da turco”. Ma per svelare la realtà Günter Wallraff è stato anche metalmeccanico e senzatetto, cronista alla Bild e operatore di call center. Ora ha raccolto i suoi ultimi lavori in un libro. E ci racconta i trucchi del mestiere: “Basta davvero poco perché la gente si riveli per quello che è”
Fingendosi immigrato firmò la sua inchiesta più famosa, “Faccia da turco”. Ma per svelare la realtà Günter Wallraff è stato anche metalmeccanico e senzatetto, cronista alla Bild e operatore di call center. Ora ha raccolto i suoi ultimi lavori in un libro. E ci racconta i trucchi del mestiere: “Basta davvero poco perché la gente si riveli per quello che è”
L’uomo dietro la maschera, la coscienza della Germania, quello che usa trucchi da cinema e lenti a contatto colorate per verificare sul campo i comportamenti dei propri concittadini, alla fine si diverte. Günter Wallraff non lo nasconde: «Per me è un gioco esistenziale, una recita, sono assieme attore e regista.
Certo che è divertente, ma è anche utile a cambiare le cose ». Infatti. La sua è una recita che ha prodotto i reportage più esplosivi, e che ha trasformato l’ex operaio in una leggenda del giornalismo investigativo. Nella Repubblica federale Wallraff è ormai punto di riferimento per ogni denuncia, mentre in Svezia e Norvegia il suo nome è così noto che il verbo “indagare sotto copertura” si dice “walraffa”. In Italia, quando recentemente è venuto a presentare il suo ultimo libro (Germania anni dieci, L’orma editore), il pubblico è restato in fila ore per conquistare, a pagamento, una poltrona a teatro. Nel suo lavoro il make up è meno importante di quanto si possa immaginare, «anche se ovviamente mi faccio aiutare da un professionista, uno che lavora per il cinema: per fare la parte dell’immigrato africano mi sono dovuto far tingere la pelle…» e poco importa se i pigmenti neri sono dannosi quando ci si diverte a svelare l’imbarazzo dei borghesi che vedono un africano farsi avanti nelle loro associazioni di amanti della natura. Non servono neppure grandi capacità da trasformista, ci spiega Wallraff, quanto piuttosto prontezza di riflessi e flessibilità. Ma a far funzionare la messa in scena «sono soprattutto la superficialità e il pregiudizio altrui». Un parrucchino e un paio di lenti a contatto scure, e Günter diventava Ali Sigirlioglu, immigrato dall’Anatolia, “straniero robusto disponibile a qualsiasi tipo di lavoro, anche come operaio addetto ai lavori più umili e pesanti, anche per un salario minimo”, come recitava l’annuncio pubblicato sui giornali per far partire l’inchiesta più famosa, poi diventata un libro, Ganz Unten (“Proprio in fondo”), pubblicato in Italia nel 1986 come Faccia da turco.
«Per trasformare il linguaggio in modo convincente mi fu sufficiente troncare un paio di sillabe finali, invertire la costruzione della frase o parlare semplicemente uno zoppicante dialetto di Colonia. Bastarono queste poche cretinate perché la gente iniziasse a dirmi senza peli sulla lingua quello che pensava di me». In quel caso la recita durò a lungo: due anni di sfruttamento e lavori massacranti per svelare le malefatte e gli abusi degli industriali tedeschi. «Un sabato stavo rientrando nel mio appartamento di Duisburg, dove vivevo, e trovai mia madre che era venuta a farmi visita. Non mi ero ancora cambiato, quindi entrai in casa così com’ero, come Ali. Parlammo un po’ poi uscii di nuovo. Quando tornai come Günter, mia madre mi chiese chi fosse quel turco. “Uno che mi aiuta nell’inchiesta”, le dissi. “Ma tu ti fidi troppo!”, mi mise in guardia lei, “Quell’uomo mi ha fatto una brutta impressione. Aveva uno sguardo…”». Vestendo i panni dell’immigrato Ali, Wallraff smascherò i successi industriali costruiti sui sacrifici degli immigrati.
Ganz Unten vendette in poche settimane tre milioni di copie e fu tradotto in trenta lingue, trasformando il cronista investigativo in un paladino degli oppressi. Altre volte l’ingresso in una realtà alternativa alla propria fa perdere la concentrazione: «Durante un’inchiesta sui call center avevo preso il nome di Michael. I primi giorni avevo stretto un buon rapporto con i colleghi, brave persone sfruttate come me, e quando mi presentarono un amico gli strinsi la mano dicendogli tranquillamente: “Piacere, Günter”. Ho visto le facce stupite intorno a me e a quel punto non ho potuto fare altro che tamponare l’emergenza: “È il mio secondo nome…”. Il fatto è che niente succede come l’hai preventivato, e allora devi sempre improvvisare…».
Wallraff oggi ha settantun anni, ma ne dimostra cinquanta. «Faccio allenamento per il triathlon», si schermisce. Però di certo non è più un ragazzino, e alcuni servizi non li può più fare. Ma il suo metodo ha fatto scuola, e c’è già una squadra di giovani reporter — il Team
Wallraff — che lavora con il suo coordinamento per portare le indagini più difficili in tv. E comunque più che l’aspetto fisico, la parte più importante della recita è l’«immersione» nella realtà da indagare: «A Colonia vivo in un quartiere pieno di immigrati. Non è così difficile trasformarmi in uno di loro: li frequento, raccolgo informazioni, imparo a comportarmi come loro». A volte è necessario il sacrificio. Vestendo i panni
di Ali, Wallraff ha lavorato da operaio alla Thyssen, ha fritto patatine da McDonald’s e ha persino fatto la cavia umana per farmaci sperimentali. «Se per raccontare le sofferenze altrui devo soffrire anch’io, va bene anche così», teorizza lui.
Che fosse dotato di spina dorsale l’aveva fatto capire da subito alla Bundeswehr: aspirante libraio, aveva ricevuto la chiamata per il servizio militare. Era tempo di guerra fredda e i pacifisti venivano considerati tout court renitenti alla leva. Wallraff finì in un ospedale psichiatrico. «Ci passai dieci mesi. Alla fine, il referto su di me fu: personalità abnorme, inabile alla guerra come alla pace. Il più bel titolo d’onore che potessi mai ricevere », racconta. Il diario dell’ospedale psichiatrico finì nelle mani di Heinrich Böll. Lo scrittore incoraggiò il giovane a non mollare. Il diario uscì a puntate su un giornale, prima con uno pseudonimo, poi con la firma di quello che le autorità militari avevano già etichettato come matto. Ma in quegli ambulatori, il “matto” aveva imparato che se si paga di persona, si riesce a raccontare le verità imbarazzanti. Dovette trovarsi un lavoro, ma allo stesso tempo decise di diventare un camaleonte, prendendo di volta in volta le sembianze dei più sfortunati. È entrato alla Thyssen e i suoi pezzi furono accolti dal giornale dei metalmeccanici. Ha vestito i panni dell’alcolizzato per narrare il trattamento in una clinica psichiatrica. Si è trasformato in studente alla ricerca di una stanza, per scoprire i pregiudizi dei padroni di casa. Si è improvvisato venditore di napalm in caccia di un contratto con le forze armate Usa. Ha passato le giornate per strada, nei panni di un senzatetto, per studiare le reazioni della gente. «Una volta dovetti presentare il mio documento d’identità per entrare in un dormitorio. L’impiegato guardò la foto, mi disse: questo non sei tu, è molto più magro di te. Gli risposi: “Ho il cancro, la foto è di quando facevo la chemio. Ora sto meglio”. E si convinse».
Il primo libro, Tredici reportage scomodi, aprì la via a servizi ancora più impegnativi: in Grecia, dove Wallraff fu arrestato e finì sotto le mani dei carnefici della dittatura. «Fui picchiato, torturato. Rimasi quattordici mesi nella prigione di Korydallos, fino alla caduta del regime ». Poi indossò i panni di un trafficante d’armi che offriva le sue merci al generale Antonio Spinola, ex presidente portoghese. «Ogni dubbio scomparve quando gli dissi che ero molto amico del leader cristianosociale bavarese Franz-Josef Strauss. Mi fece capire che fra persone delle stesse tendenze, che la pensavano allo stesso modo, ci si intendeva bene…». Spinola gli rivelò i suoi progetti di golpe in patria. Wallraff li rese pubblici in una conferenza stampa di clamore planetario. Nel ’77 arrivò il reportage nel cuore del giornalismo popolare, quella Bild Zeitung abituata a usare la penna come una clava, incurante di distruggere vite e reputazioni. «Non ho mai dimenticato la lezione del libro di Böll, L’onore perduto di Katharina Blum», racconta l’uomo che in redazione si faceva chiamare Hans Esser. Da quell’esperienza nacquero tre libri che però l’editore della Bild riuscì parzialmente a far censurare.
E oggi? «Oggi non sono più solo. Quando ho cominciato a lavorare in questo modo, mi è capitato spesso di ritrovarmi isolato e con le spalle al muro, quasi indifeso davanti a minacce e querele dei vari potenti. Adesso il mio lavoro viene riconosciuto e rispettato, la gente mi chiede aiuto. Pensi, c’è persino qualche industriale colto in flagrante che rispettosamente mi domanda di aiutarlo a cambiare».
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