Un ritratto del poeta Fernando Bandini

Ricordi. In memoria del poeta vicentino che voleva dare un «senso alle cose» e aveva una fede incrollabile nella parola
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Bandini, l’altra sponda dell’umanesimo

Un ritratto del poeta Fernando Bandini

Ricordi. In memoria del poeta vicentino che voleva dare un «senso alle cose» e aveva una fede incrollabile nella parola

Un ritratto del poeta Fernando Bandini

Ricordi. In memoria del poeta vicentino che voleva dare un «senso alle cose» e aveva una fede incrollabile nella parola

Un’incrollabile fidu­cia nella parola era la cosa che mi col­piva di più in Fer­nando Ban­dini, in una parola che fosse, insieme, spe­ciale e comune, tel­lu­rica e quieta, che por­tasse la domanda sulla verità dell’umano e il senso, con­creto e inde­fi­ni­bile, in una «forma», quella della poe­sia, nel ten­ta­tivo di «dare un senso alle cose». Adesso che dolo­ro­sa­mente parlo di lui all’imperfetto, m’accorgo che il posto vuoto è anche la per­dita di quella «fede» nel verso, che pure si fa ere­dità con­so­li­data di chi si tro­vava «in fiero disac­cordo col tempo», implo­rando le Muse di ria­vere «un’ora dell’antica carità». Nei molti incon­tri avuti in un’amicizia più che tren­ten­nale che ci legava e com­pren­deva la fra­ter­nità con­di­visa per e con Paolo Lanaro, ci si tro­vava al cro­ce­via del cre­derci o del vacil­lare sulla pos­si­bi­lità che la parola potesse ancora cam­peg­giare sul nome comune, illu­mi­nare il buio dei passi, tra arti­fi­cio e natura, dare retta al bam­bino che den­tro di lui «pro­te­sta e si lamenta», soprav­vive «in un corpo / impre­vi­sto ed alieno». Lo sguardo umile (secondo l’amato Saba) e inter­ro­ga­tivo del fan­ciullo è forse l’unica cer­tezza indi­strut­ti­bile che Ban­dini ha difeso ed affer­mato lungo tutto il sen­tiero dell’esistere, che ha por­tato con sé nel silen­zio; quello sguardo ha veduto la Sto­ria attra­ver­sata dalle sue gio­vani gambe, testi­mone dello stra­zio e della gra­zia, affian­cando l’adulto e poi il vec­chio, sem­pre sul pre­ci­pi­zio delle righe, dei versi, affac­ciato paso­li­nia­na­mente sull’abisso segnato da un agget­tivo che a Ban­dini per­tiene più di chiun­que altro, «inge­nuo», nell’accezione eti­mo­lo­gica che lo vuole nobile, degno, sin­cero, libero. Ban­dini ha testi­mo­niato la fedeltà ad un uma­ne­simo che fosse l’altra sponda del reale pri­vato e civile, della sua cru­deltà e vio­lenza, del suo sfre­gio, delle sue lesioni; via via, la sua poe­sia ha assunto anche la fisio­no­mia rico­no­sci­bile e forte di un atto poli­tico, di una presa di posi­zione morale con­tro l’immoralità cinica che lavora per can­cel­lare Sto­ria e memo­ria ed è, nei fatti, l’esecutore che agi­sce su man­dato del nulla. Ho capito il suo dise­gno quando ho lavo­rato alla com­po­si­zione di un libretto pre­zioso apparso, sotto l’insegna de L’Obliquo di Bre­scia di Gior­gio Ber­telli, nell’aprile 2010, Quat­tor­dici poe­sie con tre note di Pie­tro Gibel­lini, Mas­simo Raf­faeli e del sottoscritto.

Il fitto scam­bio di let­tere e bozze deno­tava la cura paziente nei con­fronti dei testi, dell’assetto, delle misure, delle par­ti­ture. Ne venne fuori un lavoro splen­dido annun­ciato dall’azzurro-cielo della coper­tina, colore che ho sem­pre asso­ciato a lui per lim­pi­dezza e grado di inten­sità della sua voce scritta. C’è un punto pre­ciso, in quelle cin­quan­ta­sei pagine, che rende espli­cite e strug­genti que­ste ore «dell’ammanco» sere­niano e ban­di­niano: mi rife­ri­sco a L’invasione dei bec­co­fru­soni nell’inverno 2004–2005 che con­se­gna que­sta ine­qui­vo­ca­bile clau­sola: «Per­ché così sarà la fine della sto­ria: uscire dalla luce del troppo breve giorno/in cui sono vis­suto e dire addio/ai miei cari com­pa­gni e all’universo».

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