Memoria per il futuro

Bachelet, presidente-mito cileno racconta le torture di Pinochet
Bachelet, presidente-mito cileno racconta le torture di Pinochet

Michelle Bachelet torna alla Moneda per la seconda volta presidente del Cile. Forse al primo turno, domenica, forse a dicembre. Torna per cambiare la Costituzione imposta da Pinochet 32 anni fa. Refrain del suo impegno: chiudere col passato. Eppure mai come in questa corsa i fantasmi del passato hanno accompagnato una campagna elettorale. Fantasma di Alberto Bachelet, padre di Michelle, generale fedele ad Allende che la giunta Pinochet ha torturato fino alla morte nei sotterranei dell’accademia aeronautica governata dal generale Fernando Matthei, padre di Evelyn, signora che guida la destra pinochettista contro l’amica della giovinezza Michelle. Per Evelyn il generale Bachelet era l’amico di famiglia: “Tio Beto”, zio Beto. Ma la politica li ha divisi: adesso Matthei può votare per la figlia, il povero Bachelet no.
La Bachelet non ha frugato il passato: sta preparando il futuro. Per ricordare i 40 anni del colpo di stato, assieme alla madre è tornata a Villa Grimaldi, cattedrale della tortura. Nel 2005 quando per la prima volta si candida alla Moneda, El Mercurio, la Tercera, editori a doppio filo con la destra, raccontano che il vittimismo della Bachelet è uno spot inventato per far voti.
ALLORA L’AVVOCATO ex esule Eduardo Contreras (nessuna parentela) intervista Michelle, racconto rimasto finora segreto. “Era il 10 gennaio 1975. Arrivano due giovanotti in borghese; si capiva che erano militari. Stavamo bevendo il caffè. Qualche domanda e l’invito a seguirli per l’interrogatorio ufficiale. Saremmo subito tornate, la promessa. Appena in auto ci coprono gli occhi con lo scotch, lenti scure per non far sapere che siamo prigioniere. Subito separate. Comincia la paura. È vero che partecipavo a incontri clandestini, avevo 24 anni, niente di serio. Eravamo giovani e inquiete, anni dai capelli sciolti, ragazze dei fiori, collane di legni colorati. Mi emozionavo quando i Beatles cantavano la pace. Non ero proprio hippy: difficile esserlo con un padre militare. Uscivo con un tipo che era stato allendista. Telefona mentre ci portano via. Avevamo un accordo: se ero nei pasticci dovevo rispondere: ‘La mia amica Dina mi ha invitato per il tè. Non so a che ora torno… ‘. Dina, come i servizi di Pinochet. Sempre bendata mi trascinano in una camera dai letti a castello. Otto prigioniere che non si conoscono, occhi sigillati”.
Sapeva dov’era? “Da principio no, poi una prigioniera proprietaria di una piccola industria di piastrelle solleva la benda sfidando la frusta delle guardie e scopre che le piastrelle della stanza vengono dalla sua bottega commissionate dai Vassallo antichi proprietari di Villa Grimaldi. Ecco dove siamo…”. Allora Michelle decifra i rumori: sa di quale chiesa sono le campane. Il rombo degli aerei viene dalla pista di Tobalaba. “Sono stata torturata come tutte; tre compagne di stanza sulla griglia elettrica. Tornavano svuotate, ferite fisiche e spirituali e la depressione di chi si rassegna alla morte. Per fortuna l’ho scampata”.
Gli abusi…? “No, lo direi. Ma è terribile la sensazione dell’aspettare che prima o poi succeda, indifesa nessun diritto, nessuna pietà. Potevano disporre di me: lo pensavo quando i passi si avvicinavano. Anche le ultime parole quando ci rilasciarono sono state di minaccia: se racconto cos’ho passato uccidono la mamma e alla mamma ripetono le stesse parole: se parli uccidiamo Michelle”. Nessuna signora presidente è passata dalla sala di tortura inventata dalle famiglie dei politici che 40 anni dopo provano a fermare la vittoria della loro prigioniera.

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