Forza Nuova: “Migranti criminali, via di qua”

A Pozzallo dopo la manifestazione di piazza c’è chi reagisce alle offese
A Pozzallo dopo la manifestazione di piazza c’è chi reagisce alle offese

Ragusa Su cala Brigantina, i neri guardano verso la cima del molo, fissando i cumuli di alghe putride o un punto qualsiasi che sfugga le grate del Cpo (Centro di prima ospitalità). I capannoni sporgono a lato del porto, costruiti apposta per loro, i neri. L’interregno sorge a ridosso del cantiere navale, accanto al piazzale dei Tir che aspettano di ripartire con il catamarano, per Malta. Questi sono i neri che fanno paura, che hanno cagionato la veemenza e le invettive degli irriducibili di Forza Nuova.
GLI ADEPTI di Forza Nuova a Pozzallo saranno tre quattro al massimo, il quartiere generale disponeva da Ragusa, città storicamente di estrema destra. É il presidio di Ragusa ad aver deciso sul corteo tristissimo, 70 militanti appena, il sabato sera, radunando quel che hanno potuto; sul palco i capipopolo hanno ringhiato a una platea interdetta, qualcuno tra i passanti giura di aver udito promettere con parole definitive: “sono criminali, stupratori, se ne tornassero a casa”. I neri non c’erano, i neri sono anche siriani, pochi oramai, con gli occhi chiari e i capelli ambrati. Ma sono neri comunque. Nei capannoni rimangono i gambiani perlopiù, scivolano da un Cara all’altro, da un Cpo all’altro, prove di equilibrio, non hanno perfezionato la tempra, sono giovani, ragazzini spesso, hanno incassato il trauma, si ammalano presto e nessuno se ne accorge, la loro malattia si chiama spaesamento.
Nel cortile del Cpo, i ragazzi giocano al pallone, le camionette blindate della polizia sono sentinelle taciturne, i panni sono stesi sui muri di cinta, infilati tra le grate, una specie di zoo dove si compie l’esperimento empirico più inutile e audace, la consumazione di un’identità, di una razza. A Pozzallo le rivoluzioni si esauriscono ogni mezzo secolo, e occorre il sacrificio di un outsider, necessitano persecuzioni e liberazioni, tradimenti e resurrezioni. Come è stato un tempo per il trascinatore, il socialista, l’insegnante carismatico, il partigiano inchiodato alla schizofrenia e all’ignominia, Rino Giuffrida, il pozzallese che rompeva le righe, ecco chi era.
La storia torna con i medesimi tradimenti, i medesimi perseguitati: Enzo Inì ha intitolato il suo caffè a Rino Giuffrida. E in quel caffè si spiega la medesima vicenda di riscatto, non solo perché Enzo Inì ha affermato se stesso, la propria identità di omosessuale in un paese tremendamente conservatore, il caffè è diventato il luogo del melting pot, la sostanza stessa dei neri dei capannoni. Il cambiamento accade a piccole dosi, spiega Enzo, seduto al tavolo del suo caffè, indicando una sala in special modo, la sala del cerchio, dove i ragazzi del Cpo e del paese possono perfezionare i loro talenti. Un giorno si presentò Ybrahim, veniva dal nulla dei capannoni, era agitato: sto impazzendo, sto impazzendo, ripeteva, battendosi il petto.
YBRAHIM ERA un musicista, aveva smarrito la conta dei giorni, nel centro sorvegliato dalla polizia. Sentiva voci disumane lacerare le sue tempie, il suo naufragio non lo mollava mai. Cominciò a frequentare il caffè, seguiva i corsi di batteria, di teatro, di lingua, la rivoluzione per Enzo Inì ancora una volta ebbe il sapore della salvezza. Non è mai facile fare le rivoluzioni. Quando i ragazzini dei capannoni – i neri – tornavano a essere ragazzi e basta, in quel caffè-bottega di giovani pacifisti, la loro identità scivolava via di nuovo dentro un Cara, nel purgatorio dei profughi, per non uscirne mai veramente. Davanti ai capannoni, il siriano Abdosbahi saluta i compagni con una mano sul petto. Scrive sul palmo: 120. Sono 120 giorni di campo, dice in arabo. Viene da Dar’a. I suoi occhi sembrano vetro. Anche lui è nero.

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