Lo scrittore avrebbe compiuto oggi cent’anni. Nelle sue opere si rintracciano un programma etico-politico una diagnosi impietosa dell’oggi e un’autentica idea del futuro
Lo scrittore avrebbe compiuto oggi cent’anni. Nelle sue opere si rintracciano un programma etico-politico una diagnosi impietosa dell’oggi e un’autentica idea del futuro
Considero Camus uno dei rarissimi ‘filosofi del futuro’, la cui impostazione di pensiero e il cui programma eticopolitico possano costituire un vero e proprio promemoria per una ‘filosofia dell’avvenire’ che provi a realizzare, all’insegna di un autentico realismo esistenziale, tanto Feuerbach («Io sono, anche quando penso, anche in quanto filosofo, un uomo insieme con altri uomini» e «la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu») che Marx («I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo»).
Provo a trasmettere questa convinzione con qualche rapsodica citazione accompagnata da glosse a margine. (…) La scelta etico-politica di Camus nasce come indignazione di fronte a due evidenze intollerabili e concrete che in termini tradizionali potremmo definire una materiale e una spirituale. Cominciamo da quest’ultima: «Il grande peccato della società borghese è stato di fare di questa parola [libertà] una mistificazione senza contenuto».
L’ipocrisia, questo il peccato inespiabile della società borghese.
Le promesse non mantenute, le parole tradite. I borghesi sono i farisei, i sepolcri imbiancati della nostra epoca. Quelli che ammantano le Costituzioni delle parole che incantano, che mobilitano, che guidano le rivoluzioni, che spingono fin al sacrificio della vita, o all’esilio, alla prigione, alla tortura (…), ma che immediatamente dopo calpestano nella vita politica quotidiana, nei gesti e nelle iniquità del potere, i valori con cui avevano ‘rovesciato il mondo’. C’è un dipinto/icona nella grande arte francese moderna,
La libertà che guida i popoli di Delacroix, quella bellissima donna fiera e a seno nudo, che resta il ‘J’accuse’ contro ogni potere che l’ha infangata e umiliata. Del resto, gli editoriali di Camus su Combat costituiscono la testimonianza e la cronaca giornaliera, talvolta ora per ora, dell’ultimo grande tradimento, quello delle speranze sollevate dalla Liberazione.
Dunque, la lotta contro l’ipocrisia, per la realizzazione dei valori scritti nelle parole umiliate e offese. Il carattere attualissimo di questa strategia politica che sembra poggiare su una modestissima istanza etica, recentemente lo si è potuto constatare due volte: nella lotta dei dissidenti contro i regimi comunisti dell’est, quando, a partire dalla lucida intuizione dei polacchi Kuron Modzelewski e Michnik, e con Havel in Cecoslovacchia, e via via a macchia d’olio, ci si limita a pretendere l’applicazione della legge che ‘loro’ hanno imposto, e che in teoria garantisce le più grandi libertà ai lavoratori nei ‘paradisi’ in fieri del ‘socialismo’. Inchiodando così i regimi alla loro contraddizione, facendo delle parole del regime l’arma sovversiva e libertaria contro le sue pratiche totalitarie di potere.
Oggi, in condizioni meno drammatiche e soprattutto meno visibili, più anestetizzate, la stessa cosa accade nelle società occidentali. Le Costituzioni contro il potere, le Costituzioni come programma politico di cambiamento radicale. Del resto, cosa c’è di più estremista della triade ‘Libertà, eguaglianza, fratellanza’, dove ogni valore successivo è l’interprete autentico di quello precedente? Scolpito a lettere d’oro in tutti gli edifici pubblici e calpestato senza ritegno nelle politiche sostantive del privilegio e della menzogna? Della nostra Costituzione repubblicana non aggiungo, poiché lo hanno già fatto i cittadini scendendo in piazza qualche settimana fa per chiederne la realizzazione.
E veniamo all’intollerabile evidenza materiale: «La cupidigia, l’egoismo infinito, la cecità soddisfatta, i bassi privilegi delle nostre classi dirigenti» condannano «la viltà della società borghese». Camus scrive queste righe nel periodo dell’immediato dopoguerra, quando i sacrifici della ricostruzione non venivano ripartiti secondo ‘equità’ se non nelle retoriche dei politici e della stampa conservatrici. Eppure quelle diseguaglianze, che negli anni sessanta e settanta avrebbero visto significative limitazioni, grazie al combinarsi del boom economico e dell’onda lunga del sessantotto, sono ingiustizie da dilettanti rispetto al loro disfrenarsi incontrollato e spudorato che sta travolgendo le democrazie della crisi finanziaria.
(…)
Tiriamo allora la prima somma: per Camus, rifiutare l’ipocrisia e volere la democrazia significa automaticamente essere di sinistra. «Sono nato in una famiglia, la sinistra, nella quale morirò». Di questa famiglia, tuttavia, gli è «difficile non vedere il decadimento». Ancor più difficile non considerare queste parole come una diagnosi impietosa dell’oggi. Perché la sinistra di cui era «difficile non vedere il decadimento » era ai tempi di Camus quella comunista. Quella di una minacciata rivoluzione, che però tradiva già nel suo progettarsi, perché «anche e soprattutto quando si dichiara materialista, è solo una smisurata crociata metafisica». Che all’inizio si manifesta attraverso i suoi martiri, e perciò si confonde con la rivolta autentica, ben presto, però, «sopraggiungono i preti e i bigotti». Contro quella sinistra Camus appoggerà ogni dissenso nell’est, e nel 1956 sintetizzerà così il dovere di una sinistra autentica «L’Ungheria sarà per noi ciò che fu la Spagna vent’anni fa».
Ma la sinistra di oggi, il cui ‘decadimento’ è peggio che tracollo, e per la quale le parole di Camus contro l’ipocrisia borghese sarebbero a malapena sufficienti, è ormai diventata parte integrante dell’intreccio politico-finanziario-corruttivo (con crescenti ‘dependance’ mafiose) che caratterizza, in dosaggi diversi, ogni establishment occidentale. (…)
Camus militante di sinistra, senza se e senza ma, e dunque senza nessuna accondiscendenza per chi i valori della rivolta tradisce, infanga, dimentica. Il primo di quei valori è il rifiuto della menzogna. «La libertà consiste in primo luogo a non mentire». La menzogna, infatti, distrugge «la complicità e la comunicazione scoperte attraverso la rivolta ». Perfino profetico, infine, il Camus che vede il tradimento comunista della rivolta e l’ipocrisia borghese contro la democrazia condividere un cinismo morale che sembra rendere possibile una «fusione della società poliziesca con la società mercantile». (…) Ma l’intransigenza etica e la dirittura politica, irrinunciabili, non hanno in Camus mai la iattanza della certezza, anzi. «È possibile fare il partito di quelli che non sono sicuri di avere ragione? Sarebbe il mio». In totale consonanza con un verso del suo grande amico René Char, tra i più grandi poeti del secolo, e ‘capitaine Alexandre’ nella Resistenza: «Il dubbio si trova all’origine di ogni grandezza». Ecco perché, allora «la misura non è il contrario della rivolta». Anzi, «se la rivolta potesse fondare una filosofia, sarebbe una filosofia dei limiti, dell’ignoranza calcolata e del rischio». L’uomo incerto, l’uomo del relativo, e che perciò si impegna. Poiché nulla è garantito, poiché tutto è esposto allo scacco, e dunque ciascuno è responsabile di quel poco di senso – fragile, parziale, definitivamente provvisorio – che possiamo consegnare all’esistenza.
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