INGANNAI COSÌ NAZISTI I NONOSTANTE LE TORTURE

Pubblichiamo alcuni brani da un memoriale inedito, datato 3 agosto 1944, in cui il partigiano socialista Giuliano Vassalli, futuroministro (scomparso nel 2009), racconta i momenti della sua cattura a Roma e le sevizie subìte da parte dei nazisti.

Pubblichiamo alcuni brani da un memoriale inedito, datato 3 agosto 1944, in cui il partigiano socialista Giuliano Vassalli, futuroministro (scomparso nel 2009), racconta i momenti della sua cattura a Roma e le sevizie subìte da parte dei nazisti.

Come si ricorderà, io venni arrestato alle ore 13 del giorno di Lunedì santo 3 aprile. A Libero De Angelis, che doveva recarsi alle 10.30 al collegamento, avevo dato un appuntamento di controllo per le ore 13 in via del Pozzetto; a Carlo Bracco avevo detto di mandarmi Maurizio (Ugo Mariani) allo stesso appuntamento, se avesse telefonato. Alle 11 visitai Crisafulli
e Giannini a via Lazio, presso Schmidt, rifugio del primo di detti compagni, e consegnai loro il materiale da me predisposto per l’«Avanti!», insieme a una mia lettera per Colorni, scritta in calce a una sua biografia di Beppe Lo Presti. Alle 11.30 visitai Malfatti nella sua casa di via Veneto 108, presi con lui appuntamento per l’ora di colazione e gli lasciai tutto il materiale informativo militare da me raccolto.

Alle 12.30 mi vidi alla Rinascente con Silvio Bianchi (Aurelio) ed Emilio Canevari, dal quale appresi il nome falso sotto cui è detenuto Carlo Andreoni a Milano e le attività che occorreva compiere al riguardo. Ci lasciammo alle 13 a piazza Fontana di Trevi e io mi avviai, attraversate piazza Poli e via del Tritone, a via del Pozzetto, dove avevo l’appuntamenti con Libero. Vidi quest’ultimo — lo ricordo con un’evidenza assoluta — in uno stato che mi parve di grande stanchezza e avvilimento. Stava con la schiena appoggiata a quella palizzata che tuttora esiste in quella via e aveva un impermeabile gettato sopra le spalle. Come mi vide, senza farmi alcun cenno, mosse alcuni passi verso di me che venivo verso di lui: lentamente, con aria indifferente, come se non mi vedesse. Fui io che gli andai allegramente incontro, in maniera inequivocabile, per fare appena a tempo a sentirgli dire: «Addio, siamo cascati tutti! Sono ammanettato!». In quell’attimo mi saltarono addosso, uscendo da vari portoni, numerosi tedeschi in borghese, capitanati da colui che poco dopo dovevo conoscere come il «boia» di via Tasso. Mi afferrarono per le braccia, mi strapparono la borsa in cui avevo miei manoscritti, studi e tutte carte non compromettenti (che non ho mai più rivisto) e mi trascinarono verso due macchine ferme al largo di Coen, mentre io altamente protestavo in lingua tedesca che si trattava d’un errore.
Venivo caricato a forza in una di queste macchine, mentre sull’altra veniva fatto salire Libero, accanto a me prendeva posto il boia, accanto all’autista, un giovane interprete tedesco e su uno dei due strapuntini un italiano che io credevo di vedere allora per la prima volta e che nel salire mi disse: «Finalmente ci sei, caro Giuliano» e, rivolto alle SS, aggiungeva trionfalmente: «Abbiamo preso il centro». Questo italiano — che io riconoscerei senza esitazione fra un milione di suoi sosia — fu da me rivisto nei primi interrogatori dei giorni successivi (l’istruttore Wesemann lo chiamava: signor P.) e in uno degli ultimi interrogatori, mentre partiva — comandato da Wesemann — per una missione sul fronte di Cisterna.
Avendo cercato di opporre resistenza (sempre sostenendo che si trattava di un equivoco), venni fin dal percorso verso via Tasso ridotto in stato tale che, giunti in prossimità del carcere, la macchina si fermò per qualche istante e udii (ero saldamente tenuto sdraiato dalle SS e in una pozza di sangue) che qualcuno scendeva con l’incarico di allontanare i civili stazionanti in prossimità della porta. Venni trascinato immediatamente negli uffici istruttori. Nel salire le scale riuscii a sbarazzarmi solo di una piccola parte dei documenti compromettenti che avevo indosso (tutti di natura politica e non militare) e, man mano che tra pugni e calci mi venivano tolte di tasca le varie carte, vedevo che venivano allineate accanto a quelle che la mattina alle 7 avevo consegnato a Libero perché le portasse in archivio: alcune delle quali estremamente compromettenti per me. (…)
Continuando a negare, venni percosso a sangue, soprattutto sul viso e nello stomaco. Venni sbeffeggiato in ogni modo, considerato ebreo, battuto in fronte con un timbro del partito che era in loro possesso, decorato per scherno al braccio con un bracciale del partito pure in loro possesso (sul tavolo dell’ufficio si allineavano ordigni vari, micce, capsule, ecc., che mi si dissero rinvenute nei nostri depositi). Le condizioni in cui venni ridotto furono tali che, a causa di esse, venni assegnato per segregazione, cioè perché altri detenuti non mi vedessero, alla cella n. 2, dove già si trovava un altro «pericolosissimo attentatore», il brigadiere dei carabinieri Angelo Ioppi, anch’esso in misere condizioni. Come questi mi disse, il mio viso era ridotto il più bestiale ammasso di grumi di sangue che si fosse visto a via Tasso. Il gonfiore sugli occhi era tale che mi impedì di vedere per circa dieci giorni. Agli interrogatori, che si susseguirono incessantemente per una settimana, venivo portato a spintoni e ogni soldato tedesco si credeva in diritto — durante il percorso dalla cella agli uffici (sempre ammanettato) — di darmi un calcio o di sputarmi addosso. Erano infatti trascorsi solo dieci giorni dall’attentato di via Rasella, che aveva terribilmente inasprito i tedeschi, e le SS — per vantare i risultati della loro opera — mi avevano presentato ai soldati di custodia come autore di tale attentato! Per l’intera settimana venni torturato con percosse al viso e allo stomaco, con brutalissimi calci, con staffilate e vergate sul dorso, sulle mani e sotto la pianta dei piedi. Venni inoltre percosso ripetutamente sulla testa con dei grossi tubi di metallo e più volte scaraventato a battere la testa per terra o contro le pareti, sino a perdere i sensi. (…)
Compresi subito che la Gestapo sapeva su di noi già molte cose. P. mi disse trionfalmente sin dal primo giorno che già avevano posto le mani sul mio amico Bracco, detto «bracchetto», che tanto bravo era cascato anche lui, e sul «maresciallo rosso». Io però sapevo che almeno questo ultimo era in salvo.
Sotto la gragnuola dei colpi mi veniva detto con aria trionfante che ben tre erano le spie che essi avevano messo nella nostra organizzazione e che eravamo seguiti, passo passo, da tempo; che il tempo lavorava ormai esclusivamente per la Germania e che essi avevano il coltello dalla parte del manico, che dovevamo finalmente arrenderci; e che, quanto a me personalmente, non valeva la pena di far tante commedie e di fingere di non capire, perché tutti gli altri erano ampiamente confessi, sì che ogni mia resistenza o contraddizione serviva solo a rovinarmi peggio; che era cretino mettersi in simili imprese in Italia, dove tutti sono traditori per natura, dove non si trovano «né tedeschi né moscoviti», cioè gente che sappia resistere, e via dicendo. (…)
Nei primi giorni negai tutto quanto mi veniva contestato circa Previtera e la sua attività. In genere mi son sempre attenuto alla tattica di dilazionare il più possibile, negando o non ricordando, per poi ammettere e confermare ciò che mi risultava acclarato, per altrui confessione, in maniera ormai inequivocabile ed irrevocabile.
Sempre nei primi giorni, mi venivano insistentemente chieste le località ove si trovavano i nostri depositi di armi, i nomi dei capizona e il nascondiglio di Peppino. Fingendo di non sapere quanto era accaduto il 3 mattina, continuavo ad insistere che quest’ultimo dormiva abitualmente a casa sua. Questo era il sistema da me usato: dire cose che ad essi risultavano esatte (Peppino il 3 mattina era stato trovato a casa sua), ma non tradire nessuno.
Al quarto giorno confessai che ero a capo del centro militare cittadino del partito, insieme a Peppino e a un certo «ing. Manzoni», da me non meglio conosciuto; che questo ultimo aveva il controllo sulle armi e i depositi e che pertanto né Peppino né io ne sapevamo nulla, perché la nostra organizzazione era segreta anche fra di noi; che Peppino aveva il controllo sui capizona; che io avevo invece tutti i contatti con gli altri partiti e organizzazioni e con la direzione del Partito.
Sui componenti di quest’ultima, venni poi ripetutamente interrogato. Con grande fatica riuscii a far credere che qui in Roma essa si componesse solo di tre membri: i tre, di cui essi già sapevano perfettamente dal loro archivio che erano i dirigenti del Partito socialista e cioè Nenni, Buozzi e Andreoni. Per questi ultimi assicurai che Nenni era sempre in viaggio, soprattutto in Alta Italia, e che non ne conoscevo né indirizzo né posti di recapito; che Andreoni era medico e stava in via de’ Prefetti (indirizzo a loro noto) e che doveva certamente trovarsi a Roma, perché era quello con cui io avevo maggiori contatti (sapevo invece che si trovava da gran tempo in carcere a Milano col nome di Demetrio Sergi); che Buozzi era ormai da tempo a Napoli; come aveva anche annunciato la radio di Bari. (…)
Altri interrogatori subii, come l’esponente politico più in vista che fosse presente a via Tasso per il Partito socialista (Buozzi non era ancora stato arrestato o identificato), sulle origini della ricostituzione del partito, sulla mia provenienza da altri movimenti, ecc. Riuscii a parlare del Mup (Movimento di unità proletaria, ndr ) e dell’Unione proletaria senza fare mai altro nome che quello di Mario Fioretti.
Venni altresì interrogato, genericamente, sul movimento di «Bandiera Rossa», sul Partito comunista e sul movimento dei cattolici comunisti. Non mi sfuggì mai alcun nome circa tali movimenti. (…)
Circa i contatti con gli altri partiti dissi che mantenevo i contatti unicamente col Partito comunista e col Partito d’Azione. Indicai nomi di elementi di tali partiti che io sapevo caduti nelle Fosse Ardeatine il 24 marzo, seguendo così la solita tattica di apparire loquace o veridico senza dire nulla di compromettente. Ciò infatti non dette luogo a rilievi, ma le SS erano esasperate contro i comunisti e volevano da me la conferma che essi fossero gli attentatori di via Rasella. Dissi che ciò non mi constava, ma che il nostro partito aveva, ad ogni buon conto, sollevato una protesta per i fatti di via Rasella in seno al Cln e che tale protesta era stata presentata da Andreoni. Non feci mai il nome di Pertini, che non mi risultava scoperto e che non volli mai scoprire. Quando, negli ultimi interrogatori, questo nome venne fuori, mi mostrai sempre nuovo al nome stesso e negai di sapere di chi si trattasse.

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