CARCERE Uscire dall’illegalità, un dovere costituzionale

Il messaggio di Napolitano offre l’occasione alla politica di recuperare un senso
Il messaggio di Napolitano offre l’occasione alla politica di recuperare un senso

Nel messaggio parlamentare del presidente Napolitano sulla questione carceraria l’espressione più ricorrente è «dovere», più volte qualificato come «costituzionale». È la sua giusta chiave di lettura: le Camere non sono chiamate a un esercizio di buonismo legislativo, ma a restituire legittimità al monopolio della forza che lo Stato esercita sui detenuti in forme illegali, qualificate come tortura dalla comunità internazionale. Per questo l’Italia è stata condannata a Strasburgo: trattiamo in modo inumano e degradante persone dietro le sbarre. Così, mentre puniamo il reo per aver infranto la legge, siamo colpevoli di violare la Costituzione, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), l’ordinamento penitenziario e il suo regolamento di esecuzione.
All’inferno non ci sono diritti. Garantire in celle sovraffollate il rispetto della dignità della persona detenuta è impossibile. E ciò nonostante gli standard legali siano stati progressivamente abbassati: dai 9 metri quadri regolamentari a persona (stabiliti dal decreto ministeriale 5 luglio 1975), ai 7 mq (raccomandati dal Comitato europeo di Prevenzione della Tortura), fino agli attuali 3 mq (sotto i quali, per la Corte europea dei diritti dell’uomo, scatta in automatico la condanna per tortura).
Tanto per capirci, il detenuto Torreggiani, uno dei sette ricorrenti alla Corte di Strasburgo, viveva nel carcere di Busto Arsizio con altri due dentro una cella di 9 metri quadri ridotti ulteriormente dal mobilio, per 19 ore al giorno, con limitato accesso alle docce per la penuria di acqua calda, dormendo al terzo piano di un letto a castello, a 50 centimetri dal soffitto, insufficienti per girarsi su un fianco o piegare le ginocchia. Altrove c’è chi sta anche peggio. Infatti, i ricorsi pendenti a Strasburgo per violazione dell’articolo 3 Cedu sono a migliaia: tutti congelati, in attesa che l’Italia risolva un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico», entro il 28 maggio 2014.
Siamo condannati a fare, e presto. Condannando lo Stato italiano, la Corte europea dei diritti dell’uomo chiama tutti i poteri statali ad agire. Con il suo messaggio, il Quirinale svolge egregiamente la propria parte. A più riprese aveva richiamato l’attenzione sul problema di corpi in carcere stipati fino all’inverosimile. Mai, però, ricorrendo al suo potere di messaggio, il solo che interpella ufficialmente le forze parlamentari, costringendole a una risposta argomentata e costituzionalmente orientata.
Con la sua iniziativa il Quirinale parla anche alla comunità carceraria. Il sovraffollamento è, infatti, una bomba a orologeria, pronta a esplodere in violenza. Nulla di ciò è accaduto dietro le sbarre. Detenuti muti perché abituati a comunicare con il proprio corpo (tatuato, segnato da cicatrici, spesso violentato), hanno ritrovato la parola. L’hanno usata per denunciare l’illegalità della loro condizione con la lotta nonviolenta; si sono spinti fino a Strasburgo, chiedendo giustizia. Hanno risposto a una detenzione inumana e degradante con gli strumenti dello Stato di diritto. Con il suo messaggio, il capo dello Stato riconosce loro la dignità di interlocutori.
Aggiungo che, scrivendo ai rappresentanti del popolo, il capo dello Stato parla a tutti noi, chiamati – fuori dalle mura del palazzo – a non far cadere nel vuoto le sue parole. E a rimbalzarle dentro le aule parlamentari, moltiplicandone la forza d’urto.
Quanto al governo, la controfirma del presidente Letta va oltre il mero adempimento formale. Esprime piena condivisione della diagnosi e delle cure prescritte dal Quirinale. Le azioni dovranno essere conseguenti. Infatti, il sovraffollamento carcerario è una metastasi ordinamentale a causa di norme carcerogene, per lo più introdotte con decretazione d’urgenza. Così è stato per le cause ostative alle misure alternative alla detenzione, per l’obbligo di custodia cautelare in carcere, per le restrizioni detentive dei tossicodipendenti. A ciò occorre rimediare, in fretta, disinnescandole attraverso lo stesso strumento – il decreto legge – pensato in Costituzione per risolvere situazioni straordinarie di necessità e urgenza, qual è l’attuale condizione carceraria. La strada è stata timidamente aperta dal decreto legge n. 78 del luglio scorso. Ora è necessario proseguire, con azioni coerenti alle parole del Quirinale.
Soprattutto, il messaggio è alle camere. Saprà il parlamento essere all’altezza della sfida? Saprà vincerla nei sette mesi che gli rimangono? Il messaggio offre l’occasione di recuperare il senso autentico della funzione parlamentare e di una politica degna (finalmente) di questo nome. Non va sprecata. Se è vero che un paese si riconosce dalle sue carceri, allora esse parlano di noi e di ciò che siamo. C’è da vergognarci. Tocca alle camere dirci se possiamo aspirare a vivere in una comunità dove l’uomo della pena possa essere migliore dall’uomo del reato. E dove, almeno, un detenuto sia trattato non peggio di una gallina ovaiola in gabbia.

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