SENZANI. IL FILM Genesi di un incontro, un viaggio che comincia e finisce in una città simbolo come l’Aquila
La coscienza e lo strazio di perdere qualcuno, senza percorrere la retorica del pianto
SENZANI. IL FILM Genesi di un incontro, un viaggio che comincia e finisce in una città simbolo come l’Aquila
La coscienza e lo strazio di perdere qualcuno, senza percorrere la retorica del pianto
LOCARNO. Il viaggio comincia e finisce a l’Aquila, tra le strade deserte di una città condannata a essere fantasma, che le promesse mai rispettate e la farsa della politica ha distrutto di nuovo dopo le scosse di terremoto. Una storia italiana, una delle tante, risucchiate nel vuoto della memoria. Un po’ come quella di Giovanni Senzani: anche la sua è una storia italiana di cui non si deve parlare, non almeno scavando tra le contraddizioni di un tempo e di una realtà che quella storia l’hanno prodotta. Senzani è stato un leader delle Brigate rosse, responsabile tra l’altro del sequestro e dell’omicidio di Roberto Peci, in rappresaglia al fratello Patrizio, tra i primi pentiti. Ma dire che Sangue, unico titolo italiano nel concorso locarnese, è un film sulle Br è tradirlo anche se ovviamente l’eccitazione che è cresciuta intorno al film, è la solita conforme al modo strumentale in cui, ogni volta, nel nostro paese si utilizza mediaticamente ogni riferimento al terrorismo.
Delbono non ci fa infatti la biografia di Senzani, il suo passato lo riassume una scheda d’archivio mentre Pippo ironizza: «Come dire a mia mamma che frequento un comunista?». Anche se quel passato, entra ovviamente nelle loro conversazioni, a volte è solo un accenno, altre una valutazione, una presa di distanza. «La prigione ti ha fatto bene» scherza Delbono, e intanto si passa a altro. Il film è invece la storia di un incontro, con un uomo che dopo venticinque anni di galera è da poco libero, e beffardamente l’unica che credeva fosse possibile, sua sorella, è morta prima che lui uscisse. Senzani si avvicina a Delbono dopo uno spettacolo, tra i due inizia un’amicizia, Senzani lo segue in giro per l’Italia, a Napoli, dove Pippo mette in scena una Cavalleria rusticana. Insieme vagano di notte in automobile, passando dalle battute sul navigatore – di cui Delbono confessa essere innamorato – al racconto della malattia di Anna, la moglie di Senzani che lo ha anche lei aspettato tutto quel tempo e ora sta morendo…
«Avevo paura dei comunisti forse perché mia mamma me ne aveva sempre parlato male, per lei erano quelli che quando passava con le amiche dell’Azione cattolica le urlavano ‘racchie’» dice Delbono. La mamma è anche convinta che la Madonna a un certo punto aveva smesso di apparire in Jugoslavia perché c’era Tito, la mamma che torna in tutti i suoi testi, nella cartografia dei suoi desideri, dei sentimenti, delle rivendicazioni. La mamma che lo sognava impiegato, e invece se lo è trovato attore, che lo sognava padre e marito e invece lui era omosessuale. La mamma, un grande amore, che a un certo punto si ammala pure lei, e si capisce che non c’è nulla da fare anche se lui, Pippo, nell’ostinazione disperata di chi proprio non ce la fa scappa in Albania alla ricerca di medicine magiche. E poi la filma senza tregua, attento a non perdere neppure un sussurro delle sue parole. E dopo, nell’obitorio, mentre la bara viene sigillata. Intanto anche Anna, la compagna di Senzani è morta, e lui ne lascia andare le ceneri in mare, insieme al nipotino…
È un film sulla morte, su cosa significa perdere qualcuno, qualcosa, un pezzo di sè nel tempo e nelle scelte della vita. La morte che si subisce e la morte che si dà. Eppure Sangue non percorre la retorica del pianto, il dolore è qualcosa di viscerale, di incontenibile, un fiume in piena ma con una sua strana leggerezza, che pervade quel flusso di vita punteggiato da epifanie e rivelazioni improvvise, a cui Delbono piega il suo mezzo, il telefonino o una telecamera leggera. Perché è la dimensione dell’intimità che lo interessa, ed è lì che cerca quella collettiva, la resistenza delle sue immagini, e la loro natura politica. E dove più degli altri suoi film questo è sovraesposto, carico di un impeto del sentimento, più degli altri è controllato nella ricerca filmica, nei dettagli che fanno esplodere la realtà.
Il piano sequenza lunghissimo dei funerali di Gallinari, i giovani col pugno chiuso e loro che hanno condiviso la militanza quasi distanti, ormai altrove. E se nel finale, quando ricorda davanti alla macchina da presa l’omicidio Peci, Delbono lo inquadra in primo piano, di Senzani mentre parla della tortura in carcere vediamo solo mani che si stringono con frenesia raccontando nervosismo, disagio, ansia. Le mani. Quelle del regista che stringono la mano della mamma quasi a trattenerla con ostinazione. E poi eccola all’obitorio, vestita con eleganza, un inquadratura lunghissima. Dove possono arrivare le immagini?
È questo che Delbono sembra chiedersi qui, e allora l’insostenibile della malattia, il pudore che si ha paura di violare mentre i due si parlano all’ospedale è infinitamente più feroce del racconto di Senzani. E non perché si mette in gioco la corda della commozione, ma è la materia del filmare nelle sue potenzialità, insieme al nostro sguardo, che viene interrogata chiedendoci di guardare, appunto, e di entrare in questo movimento di vita che è il cinema di Delbono, in cui ritrovare i fili delle nostre Storie è insieme un gesto di conoscenza, e diversa consapevolezza. Una prima persona provocatoria, e quasi spudorata, che nella sua libertà sa dare all’io la cifra del noi, al diario intimo (a tratti alla Stephen Dwoskin) il respiro di un gesto estetico.
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