Bucava il video, eccome: con lo sguardo fisso sulla telecamera, che agganciava lo spettatore; con la voce calda e risoluta, dallo spiccato accento sardo; con le argomentazioni serrate e taglienti, spesso condite di sdegno e a volte di sarcasmo. Ma soprattutto colpiva quello che diceva: il modo esplicito in cui Peppino Fiori esprimeva le sue posizioni di sinistra, al termine del Tg2 domenicale delle 13, più o meno come faceva Gustavo Selva, ma sul versante politico opposto, negli editoriali del Gr2. Per la Rai, fino allora ingessata nelle mille cautele dell’ufficialità, erano segnali di una piccola rivoluzione.
Bucava il video, eccome: con lo sguardo fisso sulla telecamera, che agganciava lo spettatore; con la voce calda e risoluta, dallo spiccato accento sardo; con le argomentazioni serrate e taglienti, spesso condite di sdegno e a volte di sarcasmo. Ma soprattutto colpiva quello che diceva: il modo esplicito in cui Peppino Fiori esprimeva le sue posizioni di sinistra, al termine del Tg2 domenicale delle 13, più o meno come faceva Gustavo Selva, ma sul versante politico opposto, negli editoriali del Gr2. Per la Rai, fino allora ingessata nelle mille cautele dell’ufficialità, erano segnali di una piccola rivoluzione.
Non poteva durare molto Fiori, come vicedirettore del Tg2. Non a caso il periodo dei suoi commenti, poi raccolti nel volume Parole in Tv (Mondadori, 1979), coincise con la legislatura della solidarietà nazionale (1976-1979), la fase in cui i comunisti influirono di più sugli indirizzi governativi. La stagione del pentapartito lo avrebbe visto senatore della Sinistra indipendente e per qualche tempo direttore di «Paese Sera», quotidiano romano fiancheggiatore del Pci. Ma aveva anche la vocazione dello scrittore e dello storico, come illustrano ampiamente, a dieci anni dalla morte, i tanti ricordi di personaggi famosi (da Corrado Stajano a Renzo Arbore, da Furio Colombo a Emanuele Macaluso) raccolti, a cura di Jacopo Onnis, nel volume Il coraggio della verità. L’Italia civile di Giuseppe Fiori (Cuec Editrice, pp. 157, € 14).
Convinto sostenitore di Enrico Berlinguer, cui dedicò una biografia un po’ troppo segnata dalla partecipazione emotiva e dalla sintonia con il protagonista, Fiori non era tuttavia un comunista ortodosso. Originariamente anzi era stato socialista e forse la sua ostilità verso Bettino Craxi derivava anche dalla convinzione che il leader milanese avesse snaturato il Psi. E va altresì ricordato che l’opera per cui Fiori è più noto nel mondo, la Vita di Antonio Gramsci uscita da Laterza nel 1966 e tradotta anche in turco e cinese, smentiva in larga misura gli stereotipi sul grande pensatore e i suoi rapporti con il Pci diffusi dalla pubblicistica di partito.
Nato in Sardegna nel 1923, primogenito di un maresciallo dei carabinieri, Fiori si era fatto le ossa con le inchieste sul banditismo e sulle condizioni arretrate dell’isola. Amava la sua terra, ma non la guardava con occhi indulgenti. Respingeva il mito romanticheggiante dei fuorilegge di Barbagia, ironizzava sugli «indipendentismi paesani». Carattere spigoloso, scrisse su Silvio Berlusconi un libro spietato già nel titolo, Il venditore (Garzanti, 1995), ma riuscì anche a emancipare Ernesto Rossi, nella biografia Una storia italiana (Einaudi, 1997), dall’immagine un po’ agiografica coltivata dagli ammiratori più ferventi, scavando nei drammi (da «romanzo gotico», diceva) della sua famiglia d’origine.
In televisione Fiori non tornò mai, nonostante l’indubbia padronanza del mezzo. Angelo Guglielmi, che in fondo su Rai3 avrebbe potuto dargli spazio, nel libro si giustificava invocando una linea editoriale che guardava alla realtà con «il linguaggio ironico, lo sfottò, il ludibrio». Ecco, Fiori era troppo serio per una certa tv di sinistra: in fondo è un complimento, che lui avrebbe certamente gradito.
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