Francesco Bellosi, detto Cecco, è un personaggio dal profilo alquanto avventuroso. Nato e cresciuto a Colonno, un paesino del Lago di Como, militante di Potere operaio con inclinazione a incarichi diciamo un po’ particolari
Francesco Bellosi, detto Cecco, è un personaggio dal profilo alquanto avventuroso. Nato e cresciuto a Colonno, un paesino sulla sponda occidentale del Lago di Como al centro, nei Sessanta, dei traffici legati al contrabbando di sigarette e in misura minore del caffè, è poi stato militante di Potere operaio con inclinazione a incarichi diciamo un po’ particolari.
Tra i tanti l’organizzazione dell’espatrio in Svizzera – a pochi giorni dalla strage di piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969 – del «compagno Osvaldo», ossia dell’editore Giangiacomo Feltrinelli che per l’occasione affibbiò a Cecco il soprannome di Cocco Bill. Per farla breve, nei restanti Settanta e inizio Ottanta passò per Prima linea e le Br Walter Alasia, finendo inevitabilmente poi a trottare per oltre un decennio sul «sentiero dei camosci» delle carceri speciali.
Uscito sotto vigilanza si diede da fare con comunità terapeutiche per persone tossicodipendenti e con altri non meno complicati problemi. E su questa esperienza, che tutt’ora prosegue, pubblicò una decina di anni fa un bel libro di narrativa critico e autocritico: Piccoli Gulag. Sentieri e insidie delle comunità terapeutiche.
Ma quello che ha pubblicato ora per la neonata ma già tostissima milanese Milieu è davvero straordinario: Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, pagg. 240, euro 14,90, con introduzione del cantautore Davide Van De Sfroos e prefazione del sociologo Aldo Bonomi.
In questi racconti, tutti ambientati nei luoghi del suo Lago, Cecco sfodera una scrittura arguta, visiva, ironica, sapiente ma leggera. Storie, biografie e aneddoti dei «laghée», soggetti inquieti, creativi, laboriosi e insieme inclini a forme e stili di vita ribelli e «irregolari».
Negli scenari incantevoli delle sponde della Tremezzina con porticcioli, banchine, ville lussuose, giardini ricercati e preziosi, da sempre meta turistica di una borghesia e aristocrazia internazionale, Cecco ricostruisce la mitologia delle grandi scuole alberghiere, dei cuochi di Argegno che hanno formato generazioni di grandi chef che si sono poi sparpagliati per il mondo. Una lettura colta e insieme da spasso, per la ricchezza degli aneddoti che contribuiscono a ricostruisce un pezzo importante della storia della nostra cucina. Quella vera. Altro che le monnezze pseudo enogastronomiche da «due salti in padella» che in forma di programmi televisivi ammorbano tutti i palinsesti televisivi, o in forma di libri inzeppano gli scaffali dei supermercati e le aree di servizio degli autogrill.
Ma Cecco ha modo di raccontare anche di altre particolari professioni cresciute sul lembo della sua fantastica terra: i maestri d’ascia dei cantieri nautici, gli stuccatori, le ingegnose produttrici di una margarina del tutto originale, i meccanici, gli elettrauti e i carrozzieri che provvedevano alla modifica delle automobili di grossa cilindrata dell’epoca per renderle utili al trasporto delle «bricolle» di sigarette di contrabbando nel loro percorso dal Lago a Milano. Ed è appunto la grande epopea del contrabbando a costituire la parte più rilevante del libro.
Sulle pareti scoscese e impervie dei monti infittiti di boschi della Val d’Intelvi e della Val Cavargna scorrazzano, padroni della notte, gli «spalloni» con le loro «bricolle» stracolme di Marlboro, Muratti, Turmac… Su e giù, sempre di corsa, per i sentieri che costeggiano il confine con il Ticino svizzero si fanno beffa degli inseguimenti, delle trappole e dei tranelli tesi dai «burlanda», le cupe e frustrate guardie di finanza. A capeggiare le bande è il leggendario Ment, un brigantesco Passator cortese, scaltro e sagace, prudente ma coraggioso, leale e generoso, bello e forte come gli alberi dei suoi boschi. Queste bande per nulla infime ed effimere sono in tutto e per tutto interne a una comunità solidale e omertosa che giustifica e comprende il bisogno dei suoi giovani – figli della guerra e della fame – di aspirare, attraverso il consumo selvaggio e spesso lo sperpero, a un destino diverso dal loro fatto solo di lavoro sfruttato e miseria materiale, relazionale, esistenziale. Insomma una gigantesca «illegalità di massa» praticata in territorio lombardo. E questa è senz’altro un’anomalia.
Credo di conoscere bene il contesto di queste storie narrate da Cecco, non fosse altro perché pur essendo un poco più giovane di lui sono nato e cresciuto nel territorio che sta lì di fianco al suo, le Prealpi varesine, la «zona laghi», anch’essa a un tiro di schioppo dal confine svizzero.
In questi territori, nei decenni Sessanta e Settanta, la ricostruzione post bellica, il boom e la crisi sono stati processi che per la loro concentrazione e velocità risultano alquanto difficili da raccontare, spiegare, comprendere. Cecco ci ha provato con una narrazione che ha saputo tenere il passo con questa velocità, forse favorito dal fatto che tutta la sua vita è stata contrassegnata dalla velocità con la quale è passato da un’esperienza all’altra. Sempre però rimanendo fedele ai magici caratteri originari della sua terra, quelli dell’irregolarità alle norme, della passione per l’avventura che è poi il vero piacere per una vita piena di senso.
Ci hanno pensato gli ineffabili Ottanta a spazzare via la meraviglia di quei vissuti, facendo deserto dei loro sogni e restituendo il Lago alle frivolezze distratte e volgari di una neoborghesia arricchita da speculazione finanziarie alternate a una sistematica corruzione di una politica sempre meno rappresentativa e ridotta ormai a un patetico stato comatoso. Ma questa è un’altra storia, e tutta ancora da raccontare.
Era da dieci anni che aspettavo questo libro. Dovevo pubblicarlo io. Nella dedica ho letto: «A Sergio, che ho tradito con grande affetto. Cecco».
Bastardo.
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