Viaggio fra gli spettri dei Balcani sognando una vera riconciliazione

L’inferno della guerra, la giustizia incompiuta e il «modello Sudafrica» Fu genocidio? Questa la terribile domanda cui il presidente serbo Tomislav Nikolic dovrà  dare una risposta definitiva martedì prossimo, quando apparirà  sugli schermi della tv bosniaca.

L’inferno della guerra, la giustizia incompiuta e il «modello Sudafrica» Fu genocidio? Questa la terribile domanda cui il presidente serbo Tomislav Nikolic dovrà  dare una risposta definitiva martedì prossimo, quando apparirà  sugli schermi della tv bosniaca. Ma in realtà ha già affrontato lo spinoso argomento nei giorni scorsi durante un’intervista con un giornalista bosniaco, da cui si accomiatò con poche parole, che sembrano scaturite dal rimorso: «In ginocchio, chiedo perdono per il crimine di Srebrenica e chiedo scusa per ogni altro crimine che sia stato commesso nel nome dello Stato e del nostro popolo».
Nel luglio del 1995 i militari dello Jna — l’esercito serbo agli ordini del super nazionalista Slobodan Milosevic — si avventarono su Srebrenica, dove abitavano più di 40 mila musulmani bosniaci e ne uccisero 8 mila, massacro subito definito dalla Corte Internazionale di Giustizia «un atto di genocidio». Il totale delle vittime delle guerre jugoslave — in Slovenia, Croazia, Bosnia, e Kosovo — sarebbe stato di oltre 140 mila. «Sei soldati serbi tentarono di violentare mia madre — racconta Hasan Nuhanovic, 45 anni, sopravvissuto al massacro di Srebrenica, riandando con la memoria a fatti lontani nel tempo — e quei bastardi vivono ancora in questa città: ed è con loro che mi vorrei incontrare per saldare il conto, piuttosto che con Mladic e Karadzic, i leader di allora».
Straziante lo scenario degli anni Novanta, quando, durante la guerra di Bosnia, la soldataglia serba se la spassava nei rape camps, dove migliaia di donne bosniache stavano asserragliate coi loro bambini alla mercé dei soldati serbi e dove i neonati ereditavano soltanto la nazionalità paterna, per assecondare l’obiettivo della pulizia etnica. Ovviamente, subito dopo il parto le poverette venivano «sfrattate». I vari «magnaccia» del tempo, che rispondevano ai nomi di Kunarak, Kovac e Vukovic, furono in seguito condannati per crimini contro l’umanità.
Sempre più difficile in queste regioni un calcolo sia pure approssimativo della popolazione: difficoltà cui contribuiscono la criminalità spicciola e quella, massiccia, delle grandi organizzazioni specializzate in «stragi di massa». Gli spostamenti della gente che fuggiva per trovare altrove migliori condizioni di vita o cacciata dalle bande rivali rendeva la legione degli «scomparsi» in continua espansione. E a questo punto si inserisce di conseguenza il problema, non facile, della identificazione dei cadaveri. In Croazia, ad esempio, su 1.140 corpi allora esumati da fosse comuni o tombe individuali soltanto 751 sono stati finora identificati. Succedeva, a volte, di assistere a scene strazianti, come avviene dopo un terremoto quando migliaia di persone stanno assiepate sul luogo del disastro nella speranza di veder affiorare dalla vorace i resti di un congiunto.
È una dolorosa esperienza che ho avuto il privilegio di fare durante le mie escursioni in Jugoslavia, in luoghi e tempi diversi e che qui riassumo in brevi capitoli. A cominciare dal reparto ginecologico dell’ospedale di Osijek, capitale della Slavonia, nel 1991. Tutti i 400 pazienti hanno trovato rifugio nello scantinato dell’edificio, squarciato all’alba da una bomba serba: stanno accostati, l’uno accanto all’altro, come in un lazzaretto. Ma c’è chi trova ancora la forza per sorridere. E c’è pure un bimbo nato appena un’ora prima che strilla e un altro — un batuffolino bianco — nell’incubatrice.
Ed eccoci finalmente a Gornji Vakuf, nel cuore della Bosnia, dove da oltre un anno (siamo nel 1993) musulmani e croati si contendono il territorio in scontri feroci. Alla guida del nostro fuoristrada c’è Josko, croato di Spalato, 25 anni, l’unico autista sui 15 interpellati che ha accettato di correre la «rischiosa» avventura. Ma si comincia male. Siamo bloccati all’ingresso in città dai musulmani bosniaci, cui non piacciono le nostre facce, mentre esaminano con diffidenza i documenti. Secondo Eros Bicic, l’interprete, siamo sospettati di «spionaggio» per i croati. Il fermo dura solo un paio d’ore, in una stanzetta disadorna come una cella. Poi, grazie all’intervento di un ufficiale inglese — il capitano Chris, comandante della vicina base britannica — siamo rimessi in libertà. Ma il timore di un più lungo soggiorno era più che legittimo se si doveva prestar fede a un anziano militare, secondo cui «nessuno buttato in carcere è sicuro di uscirne vivo la mattina dopo». Un’altra spiacevole sorpresa è stata che, mentre ci restituivano i documenti, la vettura veniva minuziosamente alleggerita del suo bagaglio: valigie, zaini, borse stipate di merende per il viaggio e anche qualche giocattolo destinato all’infanzia smarrita sugli altipiani.
E lo scenario alpino svanì di colpo come neve al sole non appena rimesso piede in città: nella hall dell’albergo c’era un fagotto avvolto in una tenda nera che sembrava un catafalco. Dentro c’era il corpo di un giovanotto irlandese che si era arruolato volontario nell’esercito croato e, deluso, s’era sparato in testa, senza la minima possibilità di accesso al remoto cielo di San Patrizio.
1992. Altra funerea giornata, anche se il cielo è di un pastello chiaro, tra le case di Sutina, villaggio sulla sponda orientale del fiume Neretva che più in là divide in due la città di Mostar: da una parte quella dei croati, dall’altra quella dei musulmani. Da un paio di settimane, uno stuolo di volontari militari e civili sta estraendo dalla fossa in fondo alla scarpata i cadaveri delle vittime (cento? duecento?) di uno dei più grandi massacri della guerra civile nell’Erzegovina.
Ma non si tratta di un rito funebre. Gli improvvisati becchini urlano, imprecano, bestemmiano contro quanto è rimasto di quei poveri avanzi umani: nelle reti vengono a galla anche sei paia di scarpe di tela che potevano appartenere a bambini dai tre ai sette anni. Adesso stanno pescando il cadavere numero diciotto, che è già in fase di decomposizione avanzata. Admir Balaban, un giovane miracolosamente scampato all’eccidio, sostiene senza esitazione che la responsabilità è da attribuirsi ai serbi.
Racconta di essere stato undici giorni nella fossa tra i cadaveri e di esserne riemerso solo dopo che Mostar era stata liberata dai croati: «Dopo la cattura da parte dei cetnici — spiega — il mio compito era di trasportare i cadaveri al cimitero di Sutina: lavoro che spartivo col mio amico d’infanzia Murat, che venne ucciso con una raffica quando s’accasciò a terra sfinito. La stessa cosa sarebbe successa a me un giorno o l’altro: ma io li prevenni e una mattina mi buttai a capofitto nella buca dei cadaveri e le pallottole dei serbi non mi raggiunsero». Per undici giorni vive nel fango e nell’acqua in compagnia dei morti.
Gli mancano le forze per camminare e allora striscia nella fanghiglia fino all’estremità della fossa-tomba, si disseta nei rigagnoli meno sporchi e si nutre di erbe e radici: ardua dieta che gli farà perdere 25 chili. Ma quale ebbrezza, quale vampata di giubilo quel 24 giugno quando dall’alto piovvero d’improvviso nell’imbuto nero le voci della sua gente liberata, le canzoni, gli squilli di tromba e il fracasso dei tamburi. Risalito in superficie, vide che Mostar aveva perso quattro dei suoi cinque ponti. Il solo rimasto in piedi era il Ponte Vecchio, il più famoso. Così come non era stata rimossa l’«argenteria» bellica dei croati, che aveva conservato il suo gioiello più prezioso, il cannone «Slavuj», che per come «cantava» coi suoi 130 mm. e una gittata di 28 chilometri chiamavano «l’usignolo».
Non sorprende che, a quei tempi, l’industria più fiorente di Sarajevo sia stata quelle delle pompe funebri. Dall’inizio della guerra c’erano stati 11 mila morti. I dipendenti della Bakije — la più grande azienda del genere — sfornava bare di legno a un ritmo impressionante. I cimiteri erano così «pieni» che bisognava rimuovere i vecchi cadaveri per far posto ai nuovi. Ma i profitti non raggiungevano livelli stratosferici: «Perché qui — spiegava il manager di una grossa azienda — le casse da morto sono gratis. Ciò che manca è il legno. Noi non facciamo discriminazione: ad eccezione dei musulmani, noi seppelliamo tutti gli altri, di religione non cristiana. Ma i nostri morti sono i morti più poveri del mondo. Per la maggior parte interrati al Bare, il nostro cimitero più grande che ospita 100 mila persone, tra cui 15 mila vittime di guerra. Il ritmo di Sarajevo e dintorni è di 52 morti al giorno».
I serbi di Karadzic — sostiene con orgoglio la comunità croata della capitale — hanno fatto di tutto per far morire di sete Sarajevo ma non ci sono riusciti e i 280 mila abitanti di questa straziante metropoli hanno sfruttato con parsimonia le risorse idriche locali per soddisfare le necessità quotidiane e sopravvivere.
Dove invece c’è spazio per recriminazioni, attriti, dibattiti e polemiche è il problema irrisolto dei 330 mila profughi che a causa delle guerre o in seguito a sconcertanti episodi, come l’assedio di Sarajevo, furono costretti ad abbandonare le loro case e da oltre 20 anni vivono in condizioni di estremo disagio.
Tra le vittime di guerra della Jugoslavia c’è pure una fitta rappresentanza di giornalisti, fotografi, teleoperatori e tant’altre persone in qualche modo legate al mondo dell’informazione. Quasi vent’anni or sono in un articolo dal titolo «60 croci nella neve» avevo reso omaggio ad alcuni colleghi che avevano perso la vita in missioni rischiose: come i due fotografi austriaci Nick Vogel e Norbert Werner colpiti da una granata dell’esercito federale jugoslavo nell’estate del ’91 nei pressi di Lubiana; o come il giornalista svizzero Christian Wuertonberg, trovato cadavere in una trincea della prima linea croata nel gennaio del ’92, vicino ad Osijek; o, infine, come i giornalisti serbi Milan Zocarac, Zoran Amdzic e Bora Petrovic morti in ottobre sulla strada fra Petrinja e Glina.
Quasi vent’anni sono trascorsi dalla fine del conflitto che ha sconvolto l’ex Jugoslavia. Sfortunatamente, tale regione è rimasta ancorata alle proprie radici etniche e molte vittime della guerra non hanno ricevuto un adeguato risarcimento per i danni subiti. La riconciliazione interetnica del dopoguerra e la coesione sociale hanno innescato un processo assai complesso che per essere attuato richiede tempi lunghi.
L’impunità per crimini di guerra non è stata completamente eliminata, infatti migliaia di donne che hanno subito violenza carnale non hanno ricevuto a tutt’oggi un’adeguata assistenza. Il problema dei profughi e delle persone costrette ad emigrare è rimasto ampiamente irrisolto! Progressi sono stati fatti dai governi della regione, sostenuti dalla comunità internazionale, quando hanno dimostrato di aver avuto il coraggio di ammettere le proprie responsabilità chiedendo formalmente scusa, come ha recentemente fatto il presidente serbo. Queste iniziative dovrebbero continuare, per sfociare in un più ampio processo di riconciliazione sul modello della Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica alla fine dell’apartheid. Quel tribunale straordinario in cui ebbero voce vittime e autori dei crimini agevolò la transizione dal segregazionismo a una nuova organizzazione democratica, bianca e nera. Una simile iniziativa nell’ex Jugoslavia meriterebbe ampio sostegno soprattutto dall’Europa.

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