QUELLE POLEMICHE FUORI DAL TEMPO CONTRO LA SINISTRA

La storiografia ha affrontato da anni questi temi

Leggerò d’un fiato il libro di Sergio Luzzatto, e non solo perché il suo Il corpo del duce è uno dei libri più importanti che io abbia letto sul rapporto fra la storia e la memoria del fascismo. Lo leggerò d’un fiato soprattutto perché rinvia a più di una questione storiografica ed etica.

La storiografia ha affrontato da anni questi temi

Leggerò d’un fiato il libro di Sergio Luzzatto, e non solo perché il suo Il corpo del duce è uno dei libri più importanti che io abbia letto sul rapporto fra la storia e la memoria del fascismo. Lo leggerò d’un fiato soprattutto perché rinvia a più di una questione storiografica ed etica.

Leggendo il libro, naturalmente, capirò come lo fa, in che modo dialoghi con riflessioni avviate sin da allora su questi temi o prenda altre vie. Nel 1945, nell’ultima pagina di Un uomo, un partigiano, Roberto Battaglia ci consegnava per intero il dramma vero che stava sullo sfondo della “giustizia partigiana”: «Nel giudicare i condannati — scriveva — si soffriva alle volte quanto essi, si era presi dalla loro stessa angoscia». In quelle pagine — ha osservato Ugo Berti introducendo per “il Mulino” la ristampa di quel bellissimo libro — «la condizione di fuorilegge-legislatore è esposta e interrogata nell’argomento cruciale, la legittimità del dare la morte».
A questo nodo, a questo tragico nodo di fondo rinviano anche episodi marginali o feroci, “atipici” eppur impastati della “normalità” della “guerra civile”. È merito di Claudio Pavone aver aperto più di vent’anni fa la riflessione su questi temi (più di vent’anni fa, si badi bene) sfidando duri fuochi di sbarramento e offrendo però strumenti preziosi ad una stagione di studi che ha rimosso tabù e reticenze. E non ha caso il sottotitolo del suo libro, Una guerra civile, è Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.
Quella stagione di studi, che ancora continua, ha affrontato ampiamente le pagine più aspre e dure del ’43-45 e poi il protrarsi della violenza armata contro i fascisti ben oltre il 25 aprile (il lungo protrarsi cioè dell’“ombra della guerra”). Si è interrogata non solo sulle “vulgate” ma anche su talune ipocrisie e falsificazioni della memoria pubblica.
Qualche anno fa un bel libro di Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento (Donzelli), ha illuminato di luce cruda la storia del “partigiano Facio”, combattente nell’appennino tosco-emiliano sin dalla prima fase della Resistenza (e in relazione anche con i fratelli Cervi). Insignito di medaglia d’argento nei primi anni Sessanta e un vero simbolo, in quella zona, ma ucciso in realtà da altri partigiani: non per ragioni di antifascismo ma di sopraffazione (il controllo e il comando di un’area). Un caso di ingiustizia partigiana e al tempo stesso di falsificazione di memoria: e anche qui la specifica, e feroce, “ingiustizia partigiana” rinvia — è merito di Capogreco averlo sottolineato in modo partecipe — a quel più generale nodo della “giustizia partigiana” su cui Battaglia si arrovellava con passione e tensione etica.
Per molti versi, dunque, abbiamo accumulato sufficiente maturità culturale e storiografica per misurarci in modo pacato con i nodi drammatici di una guerra civile, in tutto il loro amplissimo spettro: e i ricorrenti lamenti sulle “rimozioni della storiografia” (della storiografia di sinistra, naturalmente) appaiono pateticamente fuori stagione. Forse non è ad esse che si deve se alcune grossolane letture hanno trovato ampio spazio, se troppo spesso singoli episodi sono stati ingigantiti e assunti a rovesciato simbolo, gli alberi malati sono stati utilizzati per nascondere la foresta, il dito per occultare la luna (e, soprattutto, la riflessione su di essa). Ha una data d’avvio, questa falsificazione: è a partire dagli anni Ottanta che la “riconciliazione morbida” con il passato, in primo luogo con il passato fascista, si è accompagnata alla sostanziale deformazione del dramma e delle scelte di campo del 1943-45.
Già molti anni fa Nicola Gallerano ha scritto su questo pagine illuminanti, e alla “vulgata antiantifascista” Luzzatto stesso ha dedicato di recente le acute pagine di un agile libro, La crisi dell’antifascismo.
Una ragione in più, per quel che mi riguarda, per leggere il suo ultimo lavoro, anche per gli stimoli critici della recensione di ieri di Gad Lerner. Per il resto, da accanito lettore di quotidiani non mi stupisco certo se qualcuno non perde occasione per suonare stanche canzoni.

 

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