Il boato, poi sangue tra noi runner

 BOSTON. AVEVO appena superato la “Collina spaccacuore”, quegli ottocento metri di salita al chilometro 32 che ti tagliano il fiato.

DA UN poà vedevo sfrecciare ambulanze e auto della polizia, dirette verso il centro di Boston. È lì che mi hanno fermato: «Guardate che càè stato un attentato… La corsa finisce qui».

 BOSTON. AVEVO appena superato la “Collina spaccacuore”, quegli ottocento metri di salita al chilometro 32 che ti tagliano il fiato.

DA UN poà vedevo sfrecciare ambulanze e auto della polizia, dirette verso il centro di Boston. È lì che mi hanno fermato: «Guardate che càè stato un attentato… La corsa finisce qui».

All’improvviso ti trascinano in una realtà diversa. Sei venuto per correre la più antica maratona del mondo, sei in piedi dalle 5 del mattino, sei concentratissimo e stravolto, ed ecco la realtà che ti precipita addosso. Accanto ho gente da ogni paese, una ragazza malese si guardava intorno sperduta senza capire bene cosa sta succedendo. Mi squilla il telefono: mi chiamano dall’Italia, dal giornale. Vogliono sapere dove sono, come sto, cosa vedo. «Sono ancora lontano dal traguardo, i poliziotti mi hanno appena assicurato che non ci sono stati morti». Purtroppo si sbagliavano.
I volontari lungo tutto il percorso si occupano subito di noi, travolti dalla rabbia e dal dolore. Tutto molto americano, molto professionale. Ci danno da bere e da mangiare, l’organizzazione non si ferma, ma il tempo passa e restiamo in pantaloncini corti in mezzo al bosco: abbiamo tutti l’albergo in centro, la zona per ora è irraggiungibile. Il mio angelo custode si chiama Dafne Cardamone, è una volontaria italiana calabrese. Io alloggio al Midtown Hotel, a sette o otto minuti dal traguardo. Mi dice che ci porteranno tutti al Boston Common, un parco immenso dove troveremo gli shuttle per i vari alberghi.
Cerco il mio capogruppo, lo chiamo al cellulare ma non riesco a mettermi in contatto. Sono preoccupato, non so dove siano gli altri italiani in corsa. Alcuni scoprirò che hanno visto la morte in faccia, al traguardo. Siamo più di 200, arrivati con tre tour operator diversi. Il mio si chiama “
Born to run”, poi ci sono i ragazzi di “Terra Mia” e quelli di “Ovunque Viaggi”. Alle 5 di mattina ci hanno caricati sui bus e ci hanno portati a 40 chilometri dall’arrivo. Niente a che vedere con la maratona di New York, qui si corre in mezzo a un bosco attraversando piccoli paesini, gruppi di casette di legno deliziose. Siamo in 27mila, arrivati da tutto il mondo per una corsa che resta molto prestigiosa. Una volta si correva solo a inviti, ma anche oggi la selezione è severa. Esserci è un privilegio, quasi tutti ci siamo comprati la casacca ufficiale. Sabato abbiamo ritirato la pettorina all’Expo center, vicino a dove ci sono state le esplosioni, dove adesso è solo orrore, sangue, terrore. Proprio lì accanto c’è il Providence, uno dei più grandi centri commerciali di Boston, migliaia di persone e decine di ristoranti.
Siamo tutti molto fieri di esserci, e il clima intorno a noi è quello del grande evento, tutta la città è lì a guardarci e ad applaudirci: è una festa, sembra una festa, sarà un inferno. Il “via” per i campioni è alle 10 del mattino, per noi alle 10,40. Al chilometro 20 passiamo davanti al Wellesley College, dove le studentesse si avvicinano e ci baciano: è una vecchia tradizione. La percentuale di donne in gara è straordinariamente elevata, rispetto alle altre maratone. Qui tutto è diverso, è un altro mondo: ma adesso qui in centro è un inferno di ambulanze, allarmi. Si, qui è tutto diverso: ma come potevamo immaginare che fosse tanto diverso, tragicamente diverso, anche il finale che avevamo sognato?

 

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