Barca controcorrente, riabilita il Partito

Il modello della democrazia a partito minimo non ha funzionato da nessuna parte. Oggi bisogna pensare a una forza plurale che faccia massa attorno a un patrimonio di valori condivisi

Il modello della democrazia a partito minimo non ha funzionato da nessuna parte. Oggi bisogna pensare a una forza plurale che faccia massa attorno a un patrimonio di valori condivisi

È ormai da un pezzo che a sinistra il tema del partito politico è oggetto di qualche ripensamento. Dopo la poco esaltante stagione dei non partiti, ovvero dei partiti che si vergognavano di riconoscersi tali, la questione è stata apertamente sollevata non molto tempo fa dalle parti del Pd, pur senza sortire, finora, effetti di gran rilievo.

Adesso, che la stagione dei non partiti sembra aver raggiunto il suo culmine, col successo del Movimento 5 Stelle, sempre in area Pd ci riprova Fabrizio Barca, in un documento assai elaborato, che ripropone la questione, sollevandone al contempo sullo sfondo una ancor più ampia. Se vogliamo vivere in un regime democratico, dobbiamo ragionare con molta cura sulle sue complesse istituzioni, di cui i partiti sono un tassello essenziale. Tanto significa, a parere di chi scrive, che dobbiamo dismettere taluni stereotipi approssimativi e frettolosi che hanno per un quarto di secolo ispirato nel nostro paese sia la manipolazione delle istituzioni democratiche, sia il discredito cui sono stati sottoposi i partiti. I partiti, detto nella forma più semplice, sono macchine per conquistare il potere. Non c’è niente di male in tutto questo. Del potere si può fare pessimo uso, ma lo si può utilizzare anche per cause nobilissime.

Per chi sta a sinistra è stato una risorsa preziosa per ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie. Nei regimi democratici la forma più ovvia per conquistare il potere sta nel vincere le elezioni. Se non che, quantunque ultimamente i partiti si siano esclusivamente concentrati su tale obbiettivo, la storia dei partiti mostra come il potere lo si possa conseguire anche in altri modi. Un partito radicato socialmente – si pensi all’esperienza della socialdemocrazia tedesca o a quella del partito comunista italiano – può esercitare parecchio potere anche dall’opposizione. La dismissione del radicamento sociale dei partiti, dell’apparato, della rete dei militanti e degli iscritti, che è avvenuta in pressoché tutti i partiti europei, conviene dunque leggerla proprio in questa luce. Che essa non sia stata per caso l’effetto di una manovra politica consapevolmente finalizzata a sgombrare il terreno di un concorrente per il potere temibile come pochi? Il mondo è cambiato, dirà qualcuno, pure tra i ranghi dei partiti di sinistra. La società postfordista è incompatibile col modello del partito radicato.

L’ homo democraticus odierno ha di meglio da fare che dedicarsi alla militanza. E le solidarietà che una volta suscitava la fabbrica sono evaporate da un pezzo. Non solo, ma i partiti sono macchine oligarchiche e autoreferenziali, incompatibili con la democrazia. Sono ragionamenti non privi di fondamento. Quanto all’ultimo, possiamo tuttavia pretendere dai partiti più di quanto pretendiamo da qualsiasi organizzazione complessa, per sua natura a lungo andare tendente alla sclerosi? Probabilmente no. È tuttavia probabile invece che si potessero escogitare rimedi diversi dal ridurre i partiti ad agenzie di marketing elettorale, che simulano la partecipazione democratica ricorrendo alle primarie. Le quali, ricordiamolo, furono una soluzione escogitata oltre oceano a fine 800 con risultati di rado brillanti. L’esperienza americana è che l’esito delle primarie è consegnato o alle disponibilità finanziarie dei concorrenti, o a qualche erratica ondata plebiscitaria.

Nel frattempo, i partiti americani si sono ridotti a ectoplasmi. In realtà, la fine del modello di partito, che potremmo definire associativo-militante, ha comportato un altro effetto di gran momento. Quello di rimuovere il maggiore contrappeso che aveva per qualche tempo bilanciato i potentati economici. Nell’esperienza italiana, pur tra molti inconvenienti, ci riusciva pure la Dc. Rotto quell’argine, i potentati economici non hanno troppo faticato a sottomettere pure lo Stato. Né dimentichiamo che i partiti svolgevano del pari una fondamentale funzione di rappresentanza. Coagulavano larghi segmenti di società e ne diventavano i portavoce. Che il cambiamento sociale tra gli anni ’60 e ’70 avesse logorato quel modello di partiti, e di democrazia, è fuor di dubbio. Ma a cancellarlo è stata in primo luogo la non innocente ubriacatura per la democrazia decidente, maggioritarie e bipolare. La democrazia non aveva più bisogno di dar voce agli interessi, di rappresentare valori eterogenei. Non servivano insomma partiti solidi e stabili. Bastava ficcare tutto quanto in due grandi contenitori e puntare sui benefici effetti della concorrenza e dell’alternanza. Gli interessi e i valori si sarebbero manifestati in altro modo: tramite le lobbies o la società civile. O tramite la pubblica opinione veicolata dai media. Checché se ne dica, il modello della democrazia a partito minimo non funziona molto bene da nessuna parte. Dappertutto si pongono problemi seri di selezione del personale politico, di rappresentanza, specie dei ceti popolari, di consenso verso le istituzioni democratiche, di sottomissione della politica ai poteri forti dell’economia.

È proprio certo allora che il partito politico sia tecnologicamente così obsoleto come pretendono i suoi non disinteressai critici? Che nelle democrazie del XXI secolo vi sia spazio unicamente per partiti minimi, in outsourcing, in franchising, virtuali e via di seguito? Secondo Marco Revelli, che ci ha scritto sopra un saggio assai penetrante, il tempo dei partiti è finito, quali essi siano. Fabrizio Barca ripropone invece il modello del partito radicato. Se non altro, conviene provarci. Non senza tuttavia riadattarlo al mondo d’oggi. Bisogna studiare la questione. Perché non riproporre, ad esempio, il modello del partito indiretto inventato dai laburisti inglesi? In un mondo differenziato e pluralistico, perché non pensare a un partito plurale, a una rete di associazioni, nazionali e locali, sindacati, cooperative, circoli, riviste, giornali, che discutano, collaborino, facciano massa critica attorno a un patrimonio di valori condivisi?

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