Nostalgia Genesis

L’ex chitarrista del gruppo più amato del rock progressivo ha appena pubblicato un album e tornerà  in tour in Italia proponendo i brani più celebri della band. “È una musica che amo ancora oggi”

L’ex chitarrista del gruppo più amato del rock progressivo ha appena pubblicato un album e tornerà  in tour in Italia proponendo i brani più celebri della band. “È una musica che amo ancora oggi”

ROMA. Quand’erano assieme sul palco nei Genesis, Peter Gabriel e Steve Hackett erano come il giorno e la notte: solare e istrionico, il cantante passava da un travestimento all’altro, ora era un fiore ora un cavaliere medievale; riservato e concentrato solo sulla musica, il chitarrista se ne stava curvo sul suo strumento, in disparte e lontano dai riflettori. Eppure tra il 1970 e il 1977, Hackett giocò un ruolo fondamentale nel successo della band regina del progressive rock. Da pochi mesi, il chitarrista inglese, che ha compiuto 63 anni ha pubblicato Genesis revisited II, un doppio album in cui rende omaggio con una serie di ospiti alla musica della sua vecchia band, e il 23 aprile comincerà a Milano una tournée italiana che lo porterà poi a Vicenza, Roma e Bologna.
È la seconda volta che lei torna alla musica dei Genesis con un disco e un tour, cosa significa per lei?
«Sono sempre stato un musicista perfezionista e oggi che possiedo uno studio di registrazione tutto mio posso rileggere quella storia e alcune di quelle canzoni cercando di allargarne gli orizzonti, specialmente con l’ausilio dell’orchestra, un’urgenza che considero irresistibile. In questi 40 anni c’è stato un enorme progresso tecnico ed è fantastico poter reinterpretare e rivivere canzoni che ancora amo, da un periodo musicale che considero molto vicino allo spirito classico, direi italiano, qualcosa che unisce il rock’n’roll al folk, al country, al jazz delle grandi orchestre. Insomma, la splendida contraddizione dei Genesis».
Lei ha detto che con questo album ha innanzitutto voluto rispettare la musica della band: in che senso?
«Nella musica dei Genesis l’improvvisazione non era ammessa, non mi avrebbero mai lasciato fare un solo improvvisato alla chitarra, era tutto scritto e fedelmente riprodotto, sia dal vivo sia in sala di registrazione. Quando Peter Gabriel e Mike Rutherford mi chiamarono nella band mi dissero che, nello spirito della band, se avessi suonato una parte di chitarra questo significava che l’avevo anche composta. I dettagli per noi erano molto importanti ed è la cosa che ancora mi piace dei Genesis, per questo ho voluto farne delle versioni quanto più possibile rispettose e vicine all’originale. Questa è musica troppo monumentale per poterla cambiare».
Lei restò nella band fino al ‘77, poi per i Genesis iniziò il periodo pop: prevalsero le incomprensioni artistiche?
«Nei Genesis accadeva di provare qualcosa scritta da uno di noi, magari anche molto buona, che però per qualche motivo non registravamo. I Genesis erano una scuola di musica davvero molto competitiva e il fatto che non si pubblicasse una canzone poteva dipendere anche solo perché non era scritta collettivamente. La competizione folle ci si ritorse contro, ci portò a rinunciare a cose molto utili alla musica della band. Non fosse stato così, Peter Gabriel non avrebbe mai lasciato la band nel bel mezzo delle registrazioni per The lamb lies down on Broadway, e certo non lo avrei fatto anch’io qualche anno dopo. La nostra musica era diventata più semplice e anche la band era ormai un’altra cosa. Cominciava a spirare l’aria degli anni 80 e con i video i musicisti smisero di pensare agli album, puntarono a collezioni di potenziali singoli di successo, rinunciarono ai dettagli e ai pezzi strumentali, si concentrarono sul cantante e sul batterista, così l’armonia e la strumentazione, l’arrangiamento persero importanza».
Le lunghe suite dei Genesis non smettono di emozionare anche in questi anni di “musica liquida”.
Perché?
«All’inizio eravamo un gruppo di ragazzini che lavoravano assieme, provenienti da contesti sociali molto diversi, eppure speciali e in grado di raggiungere un alto grado di complessità, la stessa della grande musica, come quella dei grandi compositori o dei Queen di Bohemian Rapsody, un po’ opera un po’ musical, in cui l’immaginazione corre veloce e libera ».
Sulla copertina del suo album c’è una foto con piazza San Marco travolta da un’onda di marea: cosa significa?
«Con Angela e Maurizio Vicedomini, i fotografi, abbiamo scelto l’immagine da un gruppo di vecchie fotografie: sono stato io a puntare su quella più drammatica perché desideravo qualcosa di forte. Spero però non sia un’immagine profetica, ed essendo un montaggio in photoshop non c’è altro significato che quello partorito dalla loro immaginazione. Ma ci sono dei punti di contatto anche con la musica contenuta in questo doppio album: c’è l’apocalisse di Supper’s ready dei Genesis, c’è la torre che crolla nella mia A tower struck down, infine c’è la Venezia a primavera citata nel testo di Blood on the rooftops.
Ciò che è simbolico non è affatto ovvio ».
Per i Genesis la parte visuale era fondamentale, come saranno questi suoi concerti?
«Per presentare questo album ho pensato a una parte visuale, schermi con immagini e video, ci lavoro da molto tempo e spero sarà possibile utilizzarli in ognuno dei concerti che faremo. Ma mi piace pensare che la musica resta la cosa più importante, più dello stile, più di ogni altra cosa. Del resto ci sono tante tribute band
dei Genesis, forse 50, che si occupano dell’aspetto visuale e lo fanno egregiamente. Se qualcuno mi avesse detto 40 anni fa che avremmo avuto 50 tribute band
in tutto il mondo non ci avrei creduto, noi lottammo molto prima di avere successo».
Prima o poi tornerete insieme?
«Phil Collins dice che non vuole più suonare, per tanto tempo ho aspettato e tante volte gli altri mi hanno chiamato senza che poi si concretizzasse nulla. Sono stanco di aspettare, penso sia più importante costruire da solo. Ma se mi chiedessero di salire insieme su un palco lo farei, naturalmente: tutti dovrebbero però mettere da parte il loro spirito competitivo».

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