Non so se interessa a qualcuno, ma ho deciso di non votare, alle elezioni politiche. Non mi astengo né mi distraggo o mi assento: io rifiuto il voto. Dopo decenni in cui ho fornito ogni “voto utile” possibile (contro i candidati fascisti o della destra) e ho assicurato ogni possibile voto alla “sinistra” (testimoniale, minoritaria, aspirante al governo, coalizzata o solitaria), ho concluso che il modesto esercizio fisico pressoché annuale (tra elezioni municipali, comunali, provinciali, nazionali ed europee) consistente nell’andare a piedi al seggio e lì tracciare una croce su un foglio di carta, è, salvo eccezioni pragmatiche che più avanti citerò, davvero inutile.
Non so se interessa a qualcuno, ma ho deciso di non votare, alle elezioni politiche. Non mi astengo né mi distraggo o mi assento: io rifiuto il voto. Dopo decenni in cui ho fornito ogni “voto utile” possibile (contro i candidati fascisti o della destra) e ho assicurato ogni possibile voto alla “sinistra” (testimoniale, minoritaria, aspirante al governo, coalizzata o solitaria), ho concluso che il modesto esercizio fisico pressoché annuale (tra elezioni municipali, comunali, provinciali, nazionali ed europee) consistente nell’andare a piedi al seggio e lì tracciare una croce su un foglio di carta, è, salvo eccezioni pragmatiche che più avanti citerò, davvero inutile.
Capisco bene, avendo frequentato per tutta la vita persone e organizzazioni e giornali di sinistra, alternativi, perfino rivoluzionari, che una affermazione di questo tipo suona disfattista, luddista, elitaria e insomma ogni altro aggettivo sprezzante con cui – in quella cultura politica – si qualificano i non-elettori per scelta. Infatti negli ultimi mesi migliaia di persone hanno firmato appelli e partecipato a riunioni e assemblee e capannelli più o meno visibili per riuscire ad ottenere che una qualche lista di sinistra, alle elezioni, fosse finalmente dotata di senso e di persone (candidati) un po’ più aderenti alla realtà: della società e dei movimenti che la percorrono. Il tentativo è fallito, infrangendo le speranze di chi si era dato da fare: sul terreno sono rimasti i frantumi dell’idea di poter stare nelle elezioni in una maniera che non sia parente di quella con cui in genere vi si partecipa.
Ciò nonostante, l”atomo logico”, come diceva Bertrand Russell, che a differenza di quello fisico non è scindibile e che contiene la verità indiscutibile per cui a votare bisogna andarci per forza, è rimasto lì, intatto. Così che coloro che cercavano uno “stile diverso”, un rovesciamento del modo di formare le liste, ora si chiedono se sia meglio votare tizio o caio in base a calcoli su quanto si rafforzi “la sinistra” o quanto si contribuisca a battere la “destra”.
Non disprezzo affatto questi sentimenti, anzi in gran parte li condivido, benché non abbia firmato appelli e non abbia mai creduto che fosse possibile “riformare” la politica, nell’epoca del neoliberismo finanziario al comando. Difatti non è per quel fallimento che ho deciso di rifiutare il voto: ci sono arrivato dopo un cammino molto lungo e non senza un certo malessere, sono pur sempre un uomo del Novecento. Perciò la mia auto-spiegazione sarà piuttosto lunga e tormentata.
La faglia
Proprio da lì, dalla fine del Novecento, comincia il lungo cammino. Prima c’è stata la scoperta dello zapatismo e del suo discorso sovversivo degli schemi culturali di sinistra, il “mandar obedeciendo” e la democrazia diretta e il rifiuto dell’”avanguardia”, e così via. Ma poi, una dozzina di anni fa, mentre insieme a qualcun altro fondavamo un giornale, Carta, che cercava appunto di esplorare rotture culturali e zone sociali del nuovo mondo (nuovo non significa migliore, va da sé), Marco Revelli pubblicò il suo “Oltre il Novecento” e capitò che sul giornale che stava nel mio cuore, il manifesto, si accese un dibattito che somigliava a un fucilazione. Anche il mio amatissimo Luigi Pintor scrisse che si trattava del “libro più anticomunista che abbia mai letto”. Come quasi sempre, Luigi non si sbagliava, ma in questo caso aveva ragione al contrario: Revelli aiutava a capire come restare dall’altra parte del capitalismo senza tentare di far fare alla nave della storia macchina indietro. Ciò che è, nonostante H. G. Wells, l’autore de “La macchina del tempo”, impossibile.
En passant ricorderò che lo stesso Pintor scrisse prima di morire un ultimo editoriale che cominciava con le parole “la sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette”, e che finiva augurandosi la nascita di “una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste”.
Comunque il solo intervento, sul manifesto, che difese il libro di Revelli fu il mio. Quell’articolo cominciava con la definizione che il vocabolario italiano dà della parola “faglia”, questa: “s. f. Term. geol. La rottura di strati, e il conseguente spostamento di essi”. Era un modo immaginifico di segnalare come “strati” (della società, dell’economia, della politica) si fossero rotti e quanto necessario fosse diventato, come il libro di Marco cercava di fare, individuare dove e come gli “strati” si stessero spostando.
Ma, credevamo allora, l’importante era vedere che la faglia si era aperta, sapendo in ogni caso che gli spostamenti sono relativi, progressivi, talvolta lenti, e dunque – nel campo della politica e dei partiti – si trattava di accompagnare i mutamenti. Perciò, per esempio, nel 2006 partecipammo con Carta all’elaborazione del programma dell’Unione (il centrosinistra cambia nome ad ogni elezione, è la tecnica del marketing), dato che Rifondazione comunista, dopo molti tentativi di rinnovare se stessa, sembrava poter diventare il portatore sano, in una maggioranza e un governo che finalmente escludessero Berlusconi, delle istanze nuove dei movimenti sociali, esplosi a Genova cinque anni prima e presi a manganellate e peggio. Istanze nuove, attenzione: non “il lavoro” ma “che cosa si produce con il lavoro”; non lo “sviluppo” o il “Pil” ma un altro modo di misurare il benessere della società; non le privatizzazioni ma i beni comuni; non l’uso senza limiti della natura ma la cura della terra. Eccetera. Di nuovo, si credeva che la “conquista dello Stato” fosse una leva del cambiamento.
Il meno peggio
Lo Stato non è, come pensano gli estremisti di sinistra che risolvono tutto con il “conflitto” (di classe e contro lo Stato), un banale coperchio messo sopra la voglia di autonomia e autogoverno dei cittadini, sebbene certo sia in sé la materializzazione della gerarchia e della violenza (legalizzata). Lo Stato, in modo differente ma convergente con il capitale, è principalmente un rapporto sociale: è il modo stesso in cui il nostro cervello è abituato da secoli a concepire le relazioni con gli altri, ossia ciò che è “pubblico”. E tanto più è diventato una maniera di esistere degli individui e della società – qualcosa che forse la psicologia sociale e l’antropologia potrebbero sbrogliare – da quando, nei trenta anni “gloriosi” del “compromesso socialdemocratico”, lo Stato si è assunto il ruolo, per via costituzionale e grazie alla pressione di grandi masse organizzate nei partiti politici e nei sindacati, di garante e dispensatore di salute e istruzione e trasporti pubblici e prezzi calmierati e “scala mobile” e contratti collettivi di lavoro. Così che la sinistra novecentesca, incluse le sue esauste propaggini di oggi, non sembrano avere altro orizzonte se non quello di rivendicare che lo Stato salvi quella certa fabbrica, non chiuda quel certo ospedale, procuri gli ammortizzatori sociali, in una parola tenga insieme la società. Di questo ruolo dello Stato il voto, il suffragio universale conquistato solo nel dopoguerra (prima le donne non votavano), è stato la garanzia.
Perciò è tanto difficile arrivare alla conclusione: il voto non serve a niente. Peggio: il voto, la campagna elettorale, la ricerca del “leader” e la scelta dei candidati, gli opportunismi, le fazioni e le maggioranze, le carriere e le concorrenze, la semplificazione dei linguaggi per assecondare i sondaggi, l’esibizione negli show televisivi, il bizantinismo delle alleanze, il risucchio del ruolo di deputato o senatore, tutto questo procura più danni che vantaggi. A dominare la scena è sempre la legge del “meno peggio”: non sono convinto né soddisfatto di quel che il mercato elettorale offre, dunque, non potendo rinunciare al voto, scelgo il male minore.
Ma come ripeto al mio quarantennale compagno Enrico Pugliese, “al meno peggio non c’è fine”. E in questa occasione sì, uno potrebbe votare per “Ingroia” (tutti gli schieramenti politici sono citati con il nome del “candidato premier”), perché in parlamento ci sia un “diritto di tribuna” anche per la sinistra più radicale (cui Ingroia, inteso come persona, non appartiene per nulla). Ma “meno peggio” è votare per Vendola, così da rafforzare la sinistra del centrosinistra. E però ancora “meno peggio” è votare direttamente per il Pd, perché è dal risultato di quel partito che dipendono gli equilibri futuri e una possibilità di qualche autonomia dagli agenti della finanza come Monti. Ma infine, non è meglio un governo di Monti – dicono ancora oggi alcuni tra gli stessi che hanno tentato di rivoluzionare il modo di partecipare alle elezioni – piuttosto che Berlusconi?
Ma mentre si va alla ricerca del male minore (lo stesso per cui io ho votato per Rutelli contro il pericolo fascista Alemanno, ad esempio) partecipando al gioco delle differenze nelle offerte elettorali, proprio come un consumatore che al supermercato è indeciso tra uno yogurt Danone e uno Nestlé, la faglia che si era aperta alla fine del Novecento è nel frattempo diventata una voragine, e i movimenti delle stratificazioni sociali e ambientali, politiche e internazionali sono diventati convulsi, procedono a strappi e spesso sono autentici terremoti.
La dittatura
Quel che è accaduto – come scrive con abbondanza di argomenti Mario Pezzella – è che lo “spettacolo della democrazia” si è bruscamente interrotto, benché sue repliche siano ancora in corso, sempre più svuotate: a far calare il sipario è stato il capitalismo finanziario, che non è una entità astratta e a suo modo obiettiva come ci vogliono far credere, ma una costellazione di poteri visibili e non, i quali, nel complesso meccanismo delle loro alleanze e competizioni, hanno reagito alla crisi esplosa nel 2008 – crisi del meccanismo del debito su cui si reggeva la danza delle masse di denaro virtuale, ma noi sappiamo che è insieme una crisi ambientale, sociale, industriale, culturale, in una parola di civiltà – facendo in modo più diretto e brutale, e scansando le forme della democrazia appunto, quel che già facevano quando fingevano che la crescita economica, e il livello dei consumi, e quindi il benessere sarebbero durati indefinitamente.
Un professore universitario greco, un economista, interpellato da una giornalista del quotidiano spagnolo El Pais inviata ad esplorare quel che il giornale definisce “l’abisso greco”, dà un giudizio molto saggio: la Grecia, dice questo docente, è un esperimento. Un topo da laboratorio a cui le potenze finanziarie – personificate dalla “troika” formata da Banca centrale europea, Fondo monetario e Commissione europea – hanno somministrato i veleni peggiori, la sottrazione di vita sociale, in sostanza, per verificare quanto e come sarebbe sopravvissuto al trattamento. Non è una eccezione, la Grecia, è il caso estremo di una condizione – umana e politica – che riguarda tutti. Ed è uno spauracchio utile a far ingoiare agli altri topi da laboratorio la medesima medicina, anche se fin qui in dosi meno letali. Quando il “candidato premier” del centrosinistra, Bersani, dice con la sua aria da persona molto seria, che “qui finiamo nel Mediterraneo”, oltre a diffamare la nostra storia e cultura e identità, allude alla punizione che ci toccherebbe se cercassimo di disobbedire all’”austerità”, cioè alla dittatura della finanza.
Ma le potenze finanziarie sono a loro volta disperate: non possono fare altrimenti, se vogliono che l’infernale meccanismo del profitto finanziario, basato sul debito e sulla materializzaizone fittizia di speranze di guadagno, continui a macinare. Si dovessero fermare un momento per verificare quanto di reale c’è nelle borse e nelle banche, tutto crollerebbe di colpo.
Ma tutto questo vuol dire che le nostre scelte elettorali sono solo apparenti, che un esercizio reale di democrazia – com’era il caso del referendum cui l’allora primo ministro socialista greco, Papandreu, voleva sottoporre le politiche di austerità – non è ammesso, non è possibile. Infatti quel referendum non si è fatto. Perciò ovunque si cercano altre strade per affermare una sovranità cittadina. E questi tentativi hanno preso nomi molto diversi, essendo in sostanza la stessa cosa: indignados e occupy, No Tav e piazza Tahrir… Individui ma non atomi, scriveva Pintor, che ri-creano la vita e “invadono il campo”, e agiscono, dice John Holloway, nelle “crepe” del capitalismo, creando zone di vita non capitalista e fuori dallo Stato.
E queste forme di una politica nuova esuberano dai linguaggi, dai riti, dalle gerarchie e dal modo di guardare la società della vecchia politica, quella dei partiti, i titolari della rappresentanza istituzionale. In Spagna una parte del movimento degli indignados, racconta Manuel Castells (catalano e studioso di livello internazionale) ha fondato un partito, il Partito del Futuro, che però non ha gerarchie né si presenta alle elezioni: ciò che a me pare un esercizio splendido di situazionismo, ossia l’usare le vecchie parole stravolgendole, mettendole alla berlina e riempiendole di qualcosa di nuovo.
Disintossicarsi
In un tale scenario, non votare significa prima di tutto disintossicarsi. Rinunciare alla droga che stabilisce i tempi della società, scandendoli con gli eventi elettorali, ogni volta presentati come ultimativi, un’emergenza, un’urgenza; vuol dire disertare dall’auto-costrizione alla concorrenza individuale e alla gerarchia dei “leader”; scrivere una agenda sociale e politica a prescindere, come diceva Totò; riconoscere i veri poteri, ormai nemmeno più tanto nascosti dietro quelli vecchi e svuotati. Ma, più difficile di tutto, significa fare il primo passo per disintossicarsi dallo Stato. Rinunciare alla (finta) ingenua convinzione – così forte nel movimento teatrale, in senso letterale, capitanato da Beppe Grillo – che basta sostituire i cattivi politici con buoni politici, o con gente comune, per ottenere che le istituzioni si depurino, ridiventino quel che in effetti non sono mai state, o mai del tutto: espressione della volontà popolare dotate del potere di rovesciare la dittatura.
Capisco bene come possa essere terrorizzante, proporsi di rinunciare ad un nemico tanto visibile, a una “controparte” da cui pretendere atti che salvaguardino la tenuta sociale, al modo stesso di pensarsi come cittadini o membri di una società organizzata. Non è qualcosa che possa avvenire in un giorno, è una rivoluzione molto lunga e accidentata. Ma – come nel dibattito mondiale tanto acceso quanto ignorato in Italia si constata – è a questa soglia che ci troviamo. Il “moderno”, fondato dalla rivoluzione industriale e dallo Stato-nazione, è finito. Siamo in un territorio sconosciuto, molto pericoloso, in cui a farci compagnia, a darci qualche rassicurazione, sono solo le solidarietà, o colleganze, o amicizie di altri che come noi vorrebbero rifondare la vita – minacciata dal capitalismo che brevetta il vivente, privatizza i beni comuni e desertifica l’ambiente – e con essa il modo di stare insieme, la società, dunque la politica. Ciò che può cominciare solo dal livello zero della vita sociale: i luoghi, le comunità, i “municipi” (come non per caso si è chiamata l’ex fabbrica occupata a Pisa, in uno slancio verso l’autogoverno, diverso e distinto dall’istituzione locale formale).
Squilibri
Ecco, una volta che avremo sofferto per la privazione della droga, per la sensazione di essere marginali in un mondo che parla (i grandi media) solo di “politica”, di elezioni, di governi, di alleanze, di maggioranze, una volta depurati potremo forse guardare con occhio limpido anche alle opportunità che talvolta le elezioni offrono. Fossi greco, probabilmente alle ultime politiche avrei votato per Siryza, ma solo perché se quella coalizione di sinistra avesse vinto, questo avrebbe probabilmente fatto saltare il banco, posto alle “troika” un problema inedito: come continuare a saccheggiare il paese se il suo governo non è d’accordo? E come viceversa lasciar “fallire” la Grecia, quando questo comporterebbe duri contraccolpi sulle banche europee e sui governi dell’Unione?
Altrimenti, meglio rifiutare il voto, perché sinistre che aspirano al 4 o al 5 o, come in Francia, all’11 per cento dei voti restano secondarie, ed anzi procurano i danni di cui parlavo: e bisognerà pur chiedersi, una volta, perché le sinistre politiche, che aspirerebbero a cambiare i rispettivi paesi, o addirittura il mondo, dunque ad essere maggioranza, siano ormai stabilmente ridotte ad un ruolo marginale, in generale sotto il 10 per cento. Forse nel loro modo d’essere e nel loro discorso qualcosa non funziona più?
Immanuel Wallerstein, commentatore statunitense di cui tutti apprezzano l’equilibrio, ha scritto di recente (cito a memoria) che conquistare il potere dello Stato non serve a nulla, però può darsi il caso in cui partecipare ad elezioni aiuti a rompere degli equilibri. Secondo me, questo è specialmente il caso delle elezioni locali. Perciò, in modo apparentemente contraddittorio, sostengo la candidatura indipendente del mio vecchio amico (l’amicizia, tra individui e non atomi, conta molto più di quanto i militareschi costumi della sinistra consentano) Sandro Medici a sindaco di Roma. Può essere che in città si crei un movimento cittadino alieno alle geometrie di poteri che hanno sempre deciso il destino di Roma. Sarebbe un fantastico squilibrio, visto che quel che avanza, nella capitale d’Italia, è un mostruoso connubio tra centrosinistra, costruttori, “centro” e Vaticano. Voglio dire che è vero, come scrive Sergio Labate, nostro amico di DKm0, che siamo in una transizione in cui i residui del vecchio coesistono con le tracce di nuovo, e che quindi bisogna imparare a convivere con il vecchio e allo stesso tempo cercare di capire dov’è e cosa è il nuovo. Il problema è dove si mette l’accento: se sulla ripetizione, per quanto illusoriamente innovativa, dei vecchi costumi, o viceversa sulla separazione da essi per stare con il nuovo, tornando caso mai a usare occasionalmente, una volta compiuto il tragitto culturale e psicologico dal passato al futuro, anche vecchie forme della politica.
A me pare che sia arrivato finalmente il momento di secedere da un contratto sociale calpestato e svuotato per proporsi di fondarne un altro.
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