Se l’Europa cancella il suo passato

L’antisemitismo a 70 anni dalla Shoah è vivo. Come la banalizzazione del male

L’antisemitismo a 70 anni dalla Shoah è vivo. Come la banalizzazione del male

Durante una conferenza estiva sulle derive del razzismo, un ragazzino si è alzato in piedi e mi ha chiesto: «Senta, lei ci parla dell’Olocausto. Agghiacciante, d’accordo. Ma che colpa ne ho io se i nazisti gasavano i miei coetanei?». Sarebbe stato facile attaccare con l’elenco delle atrocità, denunciare gli aguzzini e concludere con un retorico e inutile «mai più». Mi è invece venuto spontaneo rispondere così: «Vedo che hai un tatuaggio sul braccio destro. E allora, immagina che domani mattina arrivi uno e ti dica che tutti quelli che hanno un tatuaggio devono essere fermati e deportati. Oppure, al contrario: che arrivi uno e ti dica che tutti quelli che non hanno un tatuaggio devono essere deportati. Come reagiresti?».
Non ho avuto risposta, se non un imbarazzato sussulto. Come se l’orrendo macigno del passato avesse risvegliato l’incubo di un possibile presente. È facile dimenticare ed è sempre difficile trasferire il peso della memoria nei nostri giorni. Eppure, in una fase acuta di crisi globale — economica, finanziaria, ma soprattutto crisi di valori — bisognerebbe interrogarsi con spietata sincerità. E scoprire che la libertà bisogna conquistarsela e che la democrazia va protetta, giorno dopo giorno, come un bimbo in fasce. Con sistemi più o meno democratici e parlamentari, sia Mussolini sia Hitler arrivarono al potere. Ma oggi, in un mondo che dice di voler rispettare i diritti umani, in Ungheria c’è un primo ministro, Viktor Orban, che sembra nutrire nostalgia per le violenze del passato, al punto da trasferirne gli artigli contro gli immigrati; nella Grecia che ha subito l’infamia della dittatura dei colonnelli, c’è un partito di estrema destra — «Alba dorata» — che non soltanto richiama nel suo logo la croce uncinata, ma predica con violenza la pulizia etnica; persino nell’Italia democratica e impoverita c’è chi profana le tombe degli ebrei, e chi violenta una ragazza accusandola di appartenere al mondo israelita.
Ecco perché quel «mai più» è al massimo un’invocazione retorica. Oggi, i pericoli prodotti dall’intolleranza e dall’incultura non sono così diversi da quelli del passato. Abbiamo denunciato, scandalizzati, la pubblicità di una palestra negli Emirati Arabi Uniti, che presentava ai clienti uno spot vincente: «Vi faremo diventare magri come ad Auschwitz». Orrore islamico, antiebraico, terroristico. Beh, altrettanto grave, se non insopportabile, il concorso che si è svolto in Israele l’estate scorsa per premiare «Miss Olocausto», cioè la donna sopravvissuta che abbia poi avuto successo nella vita. È grave aver pensato a questa infame commercializzazione della passata sofferenza, ma ancor più grave sapere che trecento donne si sono presentate al concorso. Con simili iniziative si banalizzano le atrocità del passato, e si favorisce la campagna dei negazionisti.
È quindi evidente perché si possano comprendere le angosce dei sopravvissuti, che per oltre vent’anni hanno deciso di tacere quanto avevano subito nei campi di sterminio. Il timore di non essere creduti, e di venir persino ridicolizzati era orrendo. Una sopravvissuta, Liliana Segre, ha raccontato che alcune donne, tornate a casa dopo un lungo periodo di prigionia nei lager, furono accolte con feroce ironia: «Che cosa avete dato ai tedeschi per salvarvi la pelle?».
La ferocia è strettamente collegata all’indifferenza. Basterebbe un’immagine: quei camion milanesi che trasportavano alla Stazione Centrale, Binario 21, i deportati colpevoli di essere ebrei, durante le fredde mattinate di gennaio. Quanti hanno visto questa infamia e si sono voltati dall’altra parte? Quanti hanno frettolosamente dimenticato coloro che, in cambio di una forte somma di denaro, vendevano gli ebrei ai nazisti?
Ecco perché è importante testimoniare il coraggio, ma sarebbe più giusto definirlo «umanità» di coloro che, ascoltando la coscienza, hanno deciso di rischiare per proteggere e salvare le vittime dell’orrenda campagna di sterminio razzista. È nobile quanto ha fatto, con pochissimi aiuti ma grande determinazione, Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, la Foresta dei giusti, per ottenere un risultato straordinario: convincere il Parlamento europeo ad approvare la «Giornata dei Giusti». Quella della Memoria, anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau è domani, 27 gennaio. Quella dei Giusti è diventata, da quest’anno, il 6 marzo. Per raggiungere la maggioranza del Parlamento europeo, Nissim ha impiegato mesi di lavoro, deputato dopo deputato. Alla fine, l’obiettivo è stato raggiunto. Le difficoltà non erano dovute a preclusioni, ma appunto all’indifferenza, alla noia, all’ignoranza.
Se non si ricordassero i Giusti, si dimenticherebbero uomini come Dimitar Peshev, che salvò dalla deportazione tutti gli oltre 40 mila ebrei bulgari. O come Guelfo Zamboni, console fascista a Salonicco, che salvò gli ebrei italiani e si inventò documenti falsi per salvare numerosi ebrei greci. O come Vaclav Havel, che a Praga ha lottato indomito contro la dittatura comunista. O come il libanese Samir Kassir, ammazzato perché lottava per l’indipendenza del suo Paese. O donne come Neda, martire della libertà in Iran.
I Giusti sono le voci della nostra coscienza. Uomini e donne normali, con i difetti e le passioni che abbiamo tutti, ma che davanti all’infamia, all’interesse, ai silenzi necessari per fare carriera hanno detto no. Rispondendo non agli ordini, non al dovere dell’obbedienza, ma al proprio cuore.

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