Da casa ad Auschwitz Il giovane Primo Levi alla prova del dolore

Il peso della vergogna e del tradimento

Prima di Se questo è un uomo e della Tregua. E naturalmente molto prima de I sommersi e i salvati. Esisteva allora un altro Primo Levi, poco più che ventenne, «bene intenzionato ma sprovveduto» — come scriverà  di se stesso — e com’è ovvio ignaro della sua sorte. Quel Levi ci viene ora restituito dalle pagine di un libro che è insieme narrazione, testimonianza e soprattutto indagine psicologica.  

Il peso della vergogna e del tradimento

Prima di Se questo è un uomo e della Tregua. E naturalmente molto prima de I sommersi e i salvati. Esisteva allora un altro Primo Levi, poco più che ventenne, «bene intenzionato ma sprovveduto» — come scriverà  di se stesso — e com’è ovvio ignaro della sua sorte. Quel Levi ci viene ora restituito dalle pagine di un libro che è insieme narrazione, testimonianza e soprattutto indagine psicologica.  

Il lungo viaggio di Primo Levi di cui è autore Frediano Sessi (lo pubblica la Marsilio) ci restituisce da un’angolazione diversa lo scrittore giovane, in procinto di diventare figura centrale, simbolica, della narrativa italiana sull’Olocausto.
Molto diverso dalla figura dolente, avvolta dall’aria tragica che conosciamo, questo Primo Levi di fine settembre 1943, spinto dal timore dei bombardamenti e delle leggi razziali, ma forse anche da un senso di noia e dal desiderio di avventura, sale con la sorella e la madre in un piccolo borgo della montagna valdostana, Amay, a quasi 1.500 metri. Sessi ripercorre passo passo questa storia sempre trascurata dai libri ufficiali e dalle biografie: lo ritrae solo, dopo che madre e sorella l’hanno lasciato, e attratto da una piccola banda partigiana che aveva eletto la sua base d’azione proprio ad Amay. Quindici uomini alla ricerca di armi che non sanno usare, impreparati e forse un po’ velleitari, in cerca di collegamenti con la formazione di Giustizia e Libertà: poca cosa, agli occhi della polizia fascista. E tra questi Levi ha un ruolo ancor più marginale, dal momento che non partecipa nemmeno alle riunioni del comando. Eppure il caso, la fortuna (espressione che Primo Levi prediligeva) o il destino trasformano questa piccola avventura in una grande tragedia: un intricato gioco di tradimenti e spionaggi travolge la piccola banda cui si è unito Levi. Segue un arresto in blocco, ma poiché lui, Primo, viene riconosciuto come ebreo, gli si riserva prima il campo di concentramento di Fossoli e poi il trasferimento ad Auschwitz.
Non si ferma qui il «lungo viaggio» richiamato dal titolo: allude anche al percorso interiore che culminerà nell’esperienza estrema dello sterminio, nello stupore della sopravvivenza, nel ritorno a casa e poi nel tentativo di raccontare, di mettere sulla carta l’indicibile. Ma è un «viaggio» non politico, tutto spirituale e psicologico. Quel che ci viene rivelato è la natura dei fantasmi che tormenteranno lo scrittore fino alla morte, nel 1987, così tremendamente simile a un suicidio; la loro germinazione nel suo animo; gli effetti devastanti che essi alla lunga produrranno sulla sua psiche.
La «vergogna», anzitutto. Si manifesta la prima volta ancora lassù, sulle montagne di Amay, quando i capi della banda partigiana in cui ha trovato rifugio decidono l’esecuzione sommaria di due compagni giudicati indisciplinati e pericolosi. Da quel momento, almeno, il neo partigiano Levi smarrisce la sua innocenza: si chiederà per sempre se il male e la violenza attraversino le frontiera tra le ideologie e gli uomini; e soprattutto se lui stesso, con il suo silenzio, non si debba considerare moralmente responsabile di quel delitto. Tema che torna anche più tardi, quando Levi esce in missione notturna alla ricerca di armi, continuando a chiedersi se sia giusto sentirsi felice del successo, dal momento che quelle stesse armi serviranno ad uccidere sì i nemici, ma pur sempre uomini.
Oltre alla vergogna, il dolore: sperimentato fisicamente per la prima volta al momento dell’arresto, quando i fascisti lo prendono a schiaffi, e poi inestirpabile, sotto forma di rimorso per aver abbandonato la famiglia, di angoscia nell’isolamento del carcere e soprattutto al momento della morte dei compagni nel lager.
Ancora: la paura, così umana, ma anche «forza passiva, con cui uno scoglio sopporta l’urto dell’acqua di un torrente», e che lo spingerà a confessarsi «non un uomo forte».
E infine, intrecciato al tema della vergogna, c’è quello dell’amore: Sessi illumina con discrezione il rapporto fra Primo e la bella Vanda, conosciuta ad Amay. Con la ragazza sarà internato a Fossoli prima di proseguire per Auschwitz. Ma lei, in un disperato tentativo di evitare la deportazione, l’ultima notte cederà alla lusinghe di un suo carceriere: un «deragliamento» destinato a ripercuotersi anche su di lui.
Questo è il «viaggio». Naturale concluderlo nei campi infangati di Auschwitz: l’ultimo capitolo intitolato Chiedi alla terra sembra evocare il Chiedi alla polvere di John Fante, luogo «da cui non cresce nulla»

 

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