Vincitori e vinti d’antan

Riletture intorno all’unità  d’Italia in due saggi di Alessandro Barbero e Gianni Oliva
Condizioni durissime per i detenuti militari nelle carceri dei Savoia, illuminismo e repressione nel regno borbonico

Riletture intorno all’unità  d’Italia in due saggi di Alessandro Barbero e Gianni Oliva
Condizioni durissime per i detenuti militari nelle carceri dei Savoia, illuminismo e repressione nel regno borbonico
Il nuovo saggio di Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle (Laterza, pp. 370, euro 18), nasce da una polemica innescata da alcuni libri e siti internet neoborbonici, nei quali si indaga su un lato oscuto dell’unità d’Italia, ossia quale fu il trattamento riservato ai prigionieri dei Savoia dopo la disfatta del 1860, offrendo generalmente un quadro spaventoso delle sofferenze loro inflitte con lo scopo di «rieducarli» e, soprattutto, di costringerli a entrare nelle file dell’esercito del nuovo regno.
Le politiche concentrazionarie dei Savoia troverebbero un simbolo nel carcere-fortezza di Fenestrelle, nodo strategico della Val Chisone, in provincia di Torino. Si sarebbe trattato di un lager dal quale pochi uscirono vivi. Barbero si propone di smontare questa tesi, e lo fa attraverso una scrupolosa ricerca d’archivio con la quale mette insieme una mole di dati difficilmente contestabili. Fino al 13 febbraio 1861, scrive lo storico piemontese, data della capitolazione di Gaeta, i militari che si erano arresi o erano stati catturati in battaglia ebbero diritto allo status di prigionieri di guerra. Già all’epoca, si trattava di una condizione estremamente controllata, nella quale erano proibite vessazioni e abusi e si richiedeva ai vincitori di assistere durante la prigionia i vinti in modo decoroso.
Il problema, tuttavia, è che da quel momento in poi i militari borbonici ancora a piede libero furono dichiarati dal nuovo governo «sbandati»: e a questa seconda condizione non si applicavano le garanzie previste dalla prima. I prigionieri furono divisi tra diverse città settentrionali, come Milano, Bergamo, Alessandria, e Genova; solo una parte, prima di soldati pontifici, poi di borbonici, finì a Fenestrelle. A proposito delle loro condizioni di vita in carcere, Barbero scrive: «Dobbiamo ricordare che il contingente destinato a Fenestrelle fu mandato lì esclusivamente perché quello era uno dei pochi luoghi disponibili per concentrare in condizioni di sicurezza un gran numero di prigionieri di guerra; e che il ministero raccomandò esplicitamente … di usare ai prigionieri tutti i “riguardi” necessari per evitare che patissero il freddo. Col senno di poi, sarebbe stato meglio, per motivi di immagine, evitare comunque di mandar lì quella gente: perché il nome di Fenestrelle era già allora evocativo, nell’immaginario collettivo, di detenzione durissima e di clima micidiale, e la propaganda avversaria, che faceva il suo mestiere, non avrebbe tardato ad approfittarne. Nel gennaio 1861, infatti, La Civiltà Cattolica pubblicava un articolo a effetto, più volte ripreso allora e in seguito dalla pubblicistica neoborbonica». Non si sarebbe trattato, insomma, di una forma di coercizione per costringere i prigionieri a entrare nell’esercito del vincitore.
Diverso il discorso per gli «sbandati» che, privi di diritti, finirono spesso arruolati con la forza; alla loro sorte si legano probabilmente gli atti di insubordinazione successivi (come la rivolta di Fenestrelle cui si accenna nel titolo: un episodio che Barbero tuttavia, documenti alla mano, minimizza). Ques’ultimo dato, cioè la distinzione operata da una parte sola, quella dei vincitori, fra soldati dotati di diritti e altri che, dichiarata unilateralmente conclusa la guerra, di quegli stessi diritti vennero privati, richiama tristemente vicende contemporanee: quelle delle recenti «guerre asimmetriche» in cui gli avversari vengono definiti, ancora una volta unilateralmente, «nemici combattenti», non soldati, e dunque per questo si vedono privati di diritti fondamentali, spediti a Guantanamo e in altre prigioni disseminate fra paesi amici e basi militari sparse nel mondo.
Nonostante una tradizione secolare di diritto, insomma, le forme di abuso nei confronti dei prigionieri furono e restano innumerevoli. Inoltre, forse al di là della volontà stessa dell’autore, I prigionieri dei Savoia riesce molto efficace lì dove descrive le durissime condizioni di vita dei soldati (non solo quelli meridionali) incarcerati per varie forme di insubordinazione, inducendo quindi a una riflessione non solo sul modo in cui gli stati trattano i soldati «degli altri», ma anche i propri, al di là delle retoriche patriottarde che spesso riempiono i media e le manifestazioni ufficiali: anche qui, il pensiero non può che correre alle rivelazioni recenti sui danni dell’uranio e/o delle vaccinazioni imposte a chi non si può opporre; pena, appunto, l’esser dichiarato insubordinato.
Il libro si chiude con un appello contro le mistificazioni della storia e un invito a vagliare con maggiore obiettività «un’epoca che per molto tempo è stata raccontata come una meravigliosa epopea di cui essere orgogliosi, e che da un po’ di tempo viene raccontata come una sequenza di infamie di cui vergognarsi: mentre non è forse stata la prima cosa, ma certo neppure la seconda». Una rivisitazione del tema dell’unità d’Italia non può che partire anche da una riconsiderazione di cosa sia stato il regno borbonico prima della conquista: descritto dalla propaganda savoiarda, con una buona dose di tinte razziste, come una terra di afflizione secolare, viene oggi sempre più spesso dipinta invece come un mondo felice e depredato dal nord. La lettura del libro di Gianni Oliva, Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e di Sicilia (Mondadori, pp. 270, euro 20) offre un punto di vista equilibrato su questo tema, mostrando come il regno dei Borboni avesse vissuto una fase di sviluppo soprattutto sotto Carlo, re di Napoli e di Sicilia fino al 1759 (e di Spagna fino alla morte), e di suo figlio Ferdinando I: ne beneficiarono l’industria e i trasporti, ma anche la vita intellettuale del paese; diversi tentativi, seppur non pienamente riusciti, si fecero per far pagare le tasse alla Chiesa e frenare i poteri baronali. E non c’è dubbio, scrive Oliva, piemontese come Barbero, che la Napoli illuminista fosse una città più cosmopolita e culturalmente interessante della coeva Torino. Tuttavia, dalla repressione del 1790 in poi, la situazione peggiorò e gli ultimi borboni non riuscirono a mantenere posizioni di equilibrio tali da poter opporre una migliore resistenza alla conquista sabauda. Il libro di Oliva si ferma a questo punto. Il confronto sui pregi e i drammi degli eventi che seguirono, invece, è opportuno continui nei prossimi anni.

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