Due libri di Toni Negri e Michael Hardt sui movimenti sociali
Dall’«indebitato al «rappresentato». Le parole chiave per capire i limiti della politica «radicale» Due libri che invitano a riflettere sui motivi che rendono «minoritaria» la politica radicale della trasformazione, quella che, per evitare equivoci, tende a costruire una società di liberi e eguali. Il primo ha uno stile sobrio, «semplice, quasi pedagogico.
Due libri di Toni Negri e Michael Hardt sui movimenti sociali
Dall’«indebitato al «rappresentato». Le parole chiave per capire i limiti della politica «radicale» Due libri che invitano a riflettere sui motivi che rendono «minoritaria» la politica radicale della trasformazione, quella che, per evitare equivoci, tende a costruire una società di liberi e eguali. Il primo ha uno stile sobrio, «semplice, quasi pedagogico. Il secondo, invece, ha una scrittura densa e si misura con la filosofia, meglio con il rinnovato interesse per l’opera di Baruch Spinoza, usata come grimaldello per accedere al «Politico» in una prospettiva di superamento della democrazia rappresentativa. Il primo è stato scritto da Toni Negri e Michael Hardt ed è stato pubblicato da Feltrinelli e ha come titolo Questo non è un manifesto (pp. 112, euro 10); l’altro, Spinoza e noi, è firmato solo da Negri e raccoglie scritti apparsi negli ultimi anni in Francia e tradotti dalla casa editrice milanese Mimesis (pp. 77, euro 10).
Due libri scritti all’insegna di un ottimismo della ragione che relega però sullo sfondo il perdurare di un paralizzante e penalizzante pessimismo della volontà, derivante appunto alla natura minoritaria della politica della trasformazione. Nel primo volume i due autori dichiarano da subito l’obiettivo che si prefiggono. È stato scritto dopo l’intensa stagione delle primavere arabe, di Occupy Wall Street e delle acampadas spagnole. Movimenti sociali che registrano una «riterritorializzazione» delle insorgenze sociali dopo gli anni dell’onda no-global. Questo ritorno al locale, allo stato-nazione non significa tuttavia che c’è il rifiuto di confrontarsi con l’economia mondiale e gli assetti di potere globali. La globalizzazione è qui considerato, giustamente, un fenomeno irreversibile, ma i movimenti sociali sono costretti a misurarsi con la «traduzione» locale del capitalismo, cioè con le forme che assume di volta in volta. E dunque sono portati a confrontarsi con le strutture di potere – lo stato-nazione, le forme di governance «territoriali» – esistenti. Nel far questo rendono evidenti le figure idealtipiche del presente capitalistico. C’è l’«indebitato», il «mediatizzato», il «securizzato» e il «rappresentato». Ognuna di queste figure non corrisponde a una precisa condizione sociale emersa dalla la crisi economica.
Nella gabbia del debito
L’indebitato è l’uomo e la donna che ha un salario che non basta alla loro riproduzione in quanto individuo sociale e che, in assenza o dismissione dello stato sociale, acquista al mercato il diritto all’abitare, al vestire, alla formazione, alla salute, alla pensione. Il debito è la costante dei working poor, cioè dei lavoratori poveri. E indebitati sono infatti anche i «poveri» che un salario lo hanno intermittente; oppure i precari permanenti, che costruiscono come formichine il proprio reddito, scoprendo che è sempre al di sotto del necessario per soddisfare i propri bisogni. Poco importa quale sia il lavoro che svolgono. Possono essere grafici, pubblicitari, informatici, infermieri, operai: tutti vivono nella gabbia del debito, compresi anche i giovani che si ritrovano con conti salati da pagare perché devono chiedere ingenti prestiti per frequentare le università. Forse è per questa ragione che in Spagna, gli indignados più che cercare di riconquistare Plaza del sol hanno cominciato a organizzare picchetti contro gli sfratti, a contestare le banche, a mettere in piedi ambulatori dove fornire assistenza sanitaria gratis. Qualcuno ha scritto, con disprezzo, che sono forme di mobilitazione ottocentesche, pauperistiche. Gli autori, a ragione, scrivono che sono forme di riappropriazione della ricchezza espropriata dal capitale, che ha nella finanza il suo braccio armato.
Il debito è dunque una gabbia che impedisce di progettare e sviluppare compiutamente una politica della trasformazione. Una gabbia legittimata dal lavoro a ciclo continuo svolto dalla fabbrica del consenso, cioè dai media.
Entra così in scena la figura del «mediatizzato». Sono queste le pagine meno convincenti del volume. Per i due autori, negli ultimi anni è prevalsa la dimensione «normalizzatrice» dei media, anche se di sfuggita ammettono che i social network hanno svolto un ruolo essenziale nella diffusione dei punti di vista dei movimenti sociali, arrivando anche ad essere strumento di organizzazione delle insorgenze. Non è questo il contesto per discutere il modo di produzione dell’opinione pubblica, ma è certo che andrebbe distinto il funzionamento, all’interno della fabbrica del consenso, dei media tradizionali – giornali, radio e televisione – da quello della Rete. In quest’ultimo caso, infatti, il world wide web è il medium privilegiato dai movimenti sociali perché mantiene inalterata la sua ambivalenza: dispositivo normalizzatore e, al tempo stesso, strumento comunicativo che sfugge, meglio manifesta resistenza alle tecnologie di controllo sociale.
È nell’introdurre il «mediatizzato» che i due autori specificano la non corrispondenza tra la figura e una corrispondente condizione sociale. L’«indebitato» può essere anche «mediatizzato». Così come può essere un «securizzato», cioè un uomo e una donna investite dalle politiche della sicurezza, che non riguardano solo l’ordine pubblico, ma anche l’accesso dei diritti sociali di cittadinanza (salute, formazione, pensione). Il mercato, così come avviene anche per il debito, è dunque non solo una forma di organizzazione economica, ma anche un dispositivo di controllo sociale.
L’ultima figura che i due autori presentano è il «rappresentato», cioè di colui che vede espropriata la sua partecipazione alla sfera pubblica dalle forme di democrazia rappresentativa. Più che le pagine de Questo non è un manifesto, i termini della questione trovano una migliore articolazione nella raccolta di saggi sul pensiero politico di Baruch Spinoza.
Come è noto, il filosofo olandese ha sviluppato una «teoria del politico» che ha al suo centro la moltitudine, che è ostile a qualsiasi riduzione all’«uno» (il popolo di Hobbes) e a qualsiasi forma di sovrano che esercita, rappresentando appunto il popolo, il potere. È un filone minoritario del pensiero politico moderno, che è tornata al centro della scena con la crisi dello stato-nazione e della rappresentanza. Negri, tuttavia, affronta il tema della compresenza, nella moltitudine, del potere costituente che esercita e delle istituzioni che produce. La tensione tra potere costituente e istituzione non è dialettica, né conflittuale. È compito dei movimenti, scrive Negri, sciogliere il nodo e valorizzare il momento costituenti dei conflitti sociali, e di classe, ma anche la capacità di produrre istituzioni autonome da quelle dominanti. La posta in gioco per il «rappresentato» è quindi di sviluppare il conflitto, ponendosi l’obiettivo di sviluppare adeguate forme organizzative.
La controrivoluzione dall’alto
Le tesi sviluppate nel primo libro hanno una chiara intenzione critica verso lo stato dell’arte dei movimenti sociali. Per i due autori è giunto il tempo che la critica la neoliberismo si misuri con gli effetti della crisi economica. Critica condivisibile, anche se i movimenti sociali – da Madrid a New York, da Tunisi Roma – hanno costituito l’unica forma di opposizione, e antagonismo a quella «controrivoluzione dall’alto» che ha preso forma con la crisi della democrazia rappresentativa. È però indubbio che i movimenti sociali non sono riusciti a «forzare» il blocco alla trasformazione della società. In altri termini la «potenza» che hanno espressa non si è condensata in un potere costituente, mentre tutti il regime di accumulazione che ha prodotto l’indebitato, il mediatizzato, il securizzato e il rappresentato avrà perso pure la sua forza propulsiva, ma continua ancora ad esercitare il proprio potere pastorale. Indagare i motivi di ciò è l’orizzonte in cui collocare una pratica teorica che, in quanto parte integrante dei movimenti sociali, si rimuova quel blocco per dare corpo a una politica della trasformazione sociale che punti a quella società di liberi e eguali intravista nel declino del neoliberismo.
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