Dall’arrivo in città nel ’16 della Original Dixieland Jazz Band, nel ’19 di King Oliver, nel ’22 di Armstrong, da quasi un secolo il jazz di Chicago mantiene una forte tradizione di avanguardia: che anche in questi ultimi anni mostra di saper egregiamente rinnovare.
Dall’arrivo in città nel ’16 della Original Dixieland Jazz Band, nel ’19 di King Oliver, nel ’22 di Armstrong, da quasi un secolo il jazz di Chicago mantiene una forte tradizione di avanguardia: che anche in questi ultimi anni mostra di saper egregiamente rinnovare. Se non ha ancora la notorietà di un Rob Mazurek, animatore delle varie metamorfosi di Chicago Underground, il trentottenne batterista Mike Reed è una delle figure che maggiormente contribuiscono a rendere stimolante la scena odierna della Windy City, e il suo rodato quartetto con Greg Ward al sax alto, Tim Haldeman al tenore e Jason Roebke al contrabbasso è – si può affermarlo senza tema di smentite – una delle realtà più eccitanti del jazz di oggi. Un gruppo di piena avanguardia anche quando si dedica largamente alla rilettura di momenti ormai lontani della storia dell’innovazione jazzistica a Chicago, come ha fatto la sera di Sant’Ambrogio a Macao, con una risposta molto calorosa da parte del pubblico. Il nucleo del set è stato costituito proprio dalla rivisitazione di materiali del passato chicagoano, che nella reinterpretazione del quartetto ritornano vivissimi e freschissimi: Wilbur’s Tune del batterista Wilbur Campbell, che fu accanto a Gene Ammons, Johnny Griffin e Dexter Gordon; Status Quo del tenorista John Neely, un classico dell’hard bop chicagoano (che si può ascoltare in Blowing In From Chicago, inciso nel ’57 per la Blue Note da Clifford Jordan e John Gilmore, sax tenori, Horace Silver, piano, Curly Russell, contrabbasso, Art Blakey, batteria); Saturn di Sun Ra; e un brano su tempo più moderato Is-It, degli MJT+3: tutti e quattro questi pezzi sono stati proposti già qualche anno fa in un eccellente album del quartetto di Reed, Proliferation (482 Music). La produzione di Reed, è abbondante e variamente articolata, ma non c’è dubbio che l’esecuzione secca e bruciante in quartetto di temi bellissimi e veloci come Wilbur’s Tune, Status Quo, Saturn, ne rappresentano uno degli aspetti più esaltanti.
La fulminante esposizione di questi temi da parte dei due sax rinvia alla frenesia del be bop, ma ha anche qualcosa di anfetaminicamente contemporaneo: ma pure una grande naturalezza, senza manierismi e esasperazione della velocità di cui Zorn ha fatto un marchio di fabbrica. Ma se l’esecuzione dei temi rinvia linearmente ad una matrice bop/hard bop, le improvvisazioni se ne discostano ampiamente: soprattutto Ward, uno dei più interessanti sax oggi in circolazione, dalla vena espressionista e surrealista e tutto un debito post-free con i maestri dell’Aacm, la gloriosa associazione dell’avanguardia chicagoana che ha espresso personalità come Roscoe Mitchell e Anthony Braxton, e di cui Reed rappresenta il ricambio. E dalla matrice bop/hard bop si discostano anche gli scambi e gli intrecci fra i due sax, in un gioco che appare non abbandonato alla semplice improvvisazione secondo gli stilemi di una volta, ma basato almeno su una architettura/canovaccio di spirito contemporaneo. Serrato, incalzante, in questo contesto il drumming di Reed è piuttosto ortodosso, e ha nello swing sul piatto e nei colpi sul rullante il suo solido perno, e nella determinazione il tono che è capace di infondere a questo quartetto affiatato, energetico, comunicativo. E in sintonia con la dimensione spartana e «comunitaria» (come l’ha definita lo stesso Reed) di uno spazio autogestito di produzione di cultura.
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