Lotte contro la miseria nel Veneto dell’800

TUMULTI D’ANTAN
«Ribelli, questuanti e banditi» di Piero Brunello, uscito per Cierre in una nuova edizione arricchita, è tra i libri che hanno meglio recepito la lezione di Edward P. Thompson, analizzando le proteste contadine a cavallo dell’Unità  in una chiave che risulta ancor oggi molto attuale Una delle più robuste radici dei discorsi sul Nordest fioriti negli ultimi vent’anni risiede senz’altro nella precedente individuazione di un peculiare «modello veneto» di sviluppo industriale.

TUMULTI D’ANTAN
«Ribelli, questuanti e banditi» di Piero Brunello, uscito per Cierre in una nuova edizione arricchita, è tra i libri che hanno meglio recepito la lezione di Edward P. Thompson, analizzando le proteste contadine a cavallo dell’Unità  in una chiave che risulta ancor oggi molto attuale Una delle più robuste radici dei discorsi sul Nordest fioriti negli ultimi vent’anni risiede senz’altro nella precedente individuazione di un peculiare «modello veneto» di sviluppo industriale. All’altezza degli anni Settanta il «modello veneto» si fece anche proposta storiografica, tesa alla riscoperta del ruolo centrale delle classi dirigenti locali, delle istituzioni ecclesiastiche e dell’egemonia culturale cattolica nella lunga formazione di quel particolare esito. A partire dalla fine dell’Ottocento lo sviluppo industriale sarebbe stato consapevolmente incanalato nell’alveo di rapporti sociali e di culture «tradizionali», che avrebbero evitato le lacerazioni della «modernità» facilitando così il mutamento.
Una nuova borghesia
Il rischio implicito in quell’operazione storica stava nella cancellazione delle culture e delle soggettività dei gruppi subalterni, che nelle campagne venivano spesso ascritti a un indifferenziato «mondo contadino», naturalmente rassegnato e «clericale». Lo ricordò con forza, già nel 1981, la pubblicazione di Ribelli, questuanti e banditi, una ricerca di Piero Brunello, che mostrava un volto ben diverso del Veneto ottocentesco. A distanza di trent’anni il libro è ora riedito dall’editore veronese Cierre, arricchito da una nuova prefazione dell’autore, nella quale si ricostruisce la genesi di quegli studi e il loro significato storiografico più complessivo, nel quadro delle lotte sociali e delle pratiche storiche di ricerca «dal basso» che caratterizzarono il lungo Sessantotto italiano.
L’oggetto del libro, come specificato dal sottotitolo, sono le «proteste contadine in Veneto e in Friuli», fra la restaurazione del dominio asburgico e la sua fine definitiva, con annessione al Regno d’Italia (1814-1866). In quei cinquant’anni si posero le premesse dell’Unità e dello sviluppo capitalistico, grazie al sorgere di una nuova borghesia, favorita dalle politiche di Vienna a favore dell’allargamento del mercato.
Quelle stesse politiche, ora assecondate, ora osteggiate dalle autorità locali (mentre il governo di Venezia, così come il basso clero, si collocava su posizioni di mediazione), suscitarono un vasto repertorio di conflitti sociali. Il libro è organizzato, in maniera originale, per tipologie di protesta, legate a contesti ambientali e sociali precisi: i movimenti non erano infatti semplicemente «contadini», poiché le campagne erano stratificate, diversificate geograficamente e solcate anche da conflitti interni, fra paese e paese, ma soprattutto fra gruppi entro gli stessi villaggi, contro le letture organiciste della «comunità» rurale.
Reati di lesa proprietà
Come nel corso dell’età moderna, nell’area veneta ancora per buona parte del XIX secolo i conflitti di lavoro furono limitati e la protesta si concentrò sull’accesso alle risorse e sulla distribuzione. La privatizzazione dei beni comunali e la rimozione degli usi civici, sancita anche da una legge del 1839, impedì ai «comunisti», cioè a braccianti, artigiani, affittuari e piccoli proprietari che in quanto membri della comunità avevano accesso a quelle risorse, di sfruttare boschi e pascoli comuni per mantenere il bestiame e raccogliere legna per il fuoco. Continuare a seguire il diritto consuetudinario avrebbe dato luogo a reati di lesa proprietà: negli stessi anni se ne occupò anche il giovane Marx, in uno dei suoi primi scritti, come ha ricordato Daniel Bensaid ne Gli spossessati (tradotto da un altro editore veronese, Ombre Corte, e recensito su queste pagine da Benedetto Vecchi il 27 maggio 2009).
La risposta, specie in Friuli, non si limitò ai furti, ma si articolò in suppliche, minacce (lettere e cartelli anonimi, charivari), «attruppamenti» (cioè manifestazioni di piazza) e invasioni di terre. Nelle zone paludose del litorale o lungo il corso dei fiumi invece i «cannaroli» si opponevano alle bonifiche e reclamavano il «vagantivo», il diritto di caccia, pesca e raccolta nelle valli comunali, menzionando esplicitamente, con un sorprendente uso pubblico del documento storico, antiche concessioni altomedievali.
Su un altro versante delle politiche di liberalizzazione, nei momenti di carestia o di oscillazione dei prezzi dei cereali la protesta si concentrò nei borghi artigianali e vide protagoniste le donne: miravano a impedire l’«esportazione» dei grani fuori dall’area comunale, contestavano le sempre più diffuse pratiche di incetta e tumultuavano durante i mercati contro il venir meno delle politiche assistenziali tradizionali, prendendo costantemente di mira i proprietari ritenuti responsabili e costringendo spesso alla reintroduzione del calmiere, che avrebbe dovuto essere rimosso in ossequio alle direttive liberiste dell’Impero.
Il prezzo della deferenza
Se nelle fasi di carestia anche i montanari scendevano in città alla ricerca di assistenza, la questua di gruppo si diffuse massicciamente nelle pianure del basso Veneto alla metà del secolo, quando la crisi del 1853-54 rivelò la trasformazione dei braccianti «obbligati» (legati da un patto annuo, che prevedeva lavoro o assistenza nei mesi invernali) in «avventizi» (assunti al bisogno in occasione dei lavori agricoli).
Assieme alle malattie, colera e pellagra, segno di una crescente vulnerabilità, dilagarono gli episodi di protesta, con richieste pubbliche di lavori pubblici o anticipi di farina, oppure spedizioni presso i proprietari meno accomodanti per esigere assistenza. Negli stessi contesti, specie nel Rodigino, si riscontrò una recrudescenza della criminalità e l’affiorare di forme di banditismo «sociale», con esplicite rivendicazioni punitive e redistributive da parte delle bande e relativa protezione da parte delle popolazioni.
Ribelli, questuanti e banditi è uno dei libri italiani che ha maggiormente recepito la lezione di Edward P. Thompson: mercato, borghesia e capitale intaccarono lungo tutto il secolo l’«economia morale» costituita da relazioni sociali paternalistiche che scambiano assistenza con deferenza.
Ma la deferenza ha un prezzo e la «cultura plebea» poteva rivelarsi ribelle se venivano meno le condizioni di quello scambio. Non c’era spazio per la passiva rassegnazione in queste società in transizione e la distruzione dell’«economia morale» incontrò numerose resistenze. La stessa sconfitta di quelle proteste aiuta a spiegare, al di là di interpretazioni miserabiliste o economiciste, la grande emigrazione di fine secolo, ultimo sussulto di rifiuto di un mondo sconvolto dalla fine di un’orizzonte di senso, oltre che dai colpi della crisi agraria. E la contemporanea organizzazione di classe bracciantile, che pure rappresentò l’adozione di nuove forme di conflitto e un adeguamento alle ormai mutate regole del gioco (il mercato del lavoro salariato), non si comprende senza questo retroterra.
Le resistenze del mondo rurale erano del tutto consapevoli delle poste in gioco, come emerge dalle voci dei protagonisti accuratamente raccolte da Brunello negli archivi di polizia e dei tribunali. Le azioni collettive del mondo rurale esprimevano nel complesso una resistenza alla proletarizzazione. Come ha ricordato Hobsbawm, non era solo l’immiserimento a preoccupare chi protestava, perché la proletarizzazione non aveva solo una dimensione economica, di precarizzazione della sussistenza (la perdita delle risorse fino a quel momento garantite lasciava a questi soggetti solo l’opportunità di vedere le proprie braccia su un mercato del tutto incerto e li esponeva maggiormente a subire le ricorrenti crisi agrarie), ma rappresentava un declassamento sociale complessivo, per l’inasprirsi della dipendenza e per il venir meno dello statuto di membro a pieno titolo della comunità.
La percezione, tutto sommato lucida, di questa prospettiva portava a protestare in nome della consuetudine o dei diritti del passato, dunque di un quadro di relazioni dato, ma talvolta le contraddizioni quotidiane spingevano a guardare al futuro, a orizzonti più egualitari, come la redistribuzione delle terre, incompatibili con le gerarchie sociali. Quelle voci ci parlano ancora, dinanzi al ricorrente assalto alla moderna forma di «economia morale» basata non più sulle relazioni sociali locali, ma sul riconoscimento istituzionale del diritto del lavoro e del welfare.
Processi e bastonate
In un momento in cui il conflitto è ritenuto patologia, da classificare nelle rubriche della devianza o della criminalità, vale la pena riandare a queste storie di artigiani, contadini e braccianti che reclamavano tutto sommato piccole cose, un diritto alla sussistenza minacciato da nuovi ricchi e vecchi poteri. Proprio come a loro, oggi ci viene detto che un’ulteriore mercificazione (del lavoro come dell’acqua, della formazione, della sanità, dei servizi municipali, etc.) è necessaria, progressiva e iscritta nel nostro futuro e che non vale la pena resistere.
Talvolta le parole vengono sottolineate, proprio come nel loro caso, da bastonate e processi, quasi a segnalare concretamente la continuità con la repressione ottocentesca delle proteste contadine (la critica liberista all’intervento pubblico non si è mai spinta fino a mettere in discussione alcuni servizi essenziali garantiti dallo Stato). Nonostante tutto, proprio come loro, continuiamo a lottare per un altro futuro, ispirati dalla nostalgia di un diverso passato.

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SCAFFALI
ll divenire classe dei proletari senza storia

Mentre i banchi e gli scaffali delle librerie rigurgitano di migliaia di titoli programmati per vivere qualche settimana o poco più, prima di cadere nel dimenticatoio, subito sostituiti da altri, altrettanto effimeri, esiste una quantità di testi, veri e propri classici contemporanei, che sono spariti dalla circolazione e si possono reperire soltanto in biblioteca: è questo il caso di «The Making of the English Working Class» di Edward P. Thompson, uscito nel 1963, quando lo storico marxista britannico insegnava all’università di Leeds, e tradotto da Bruno Maffi nel 1969 per il Saggiatore sotto il titolo «Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra». Da molti anni ormai questo saggio che è stato un modello per tanti studiosi e che – come scrive nell’introduzione lo stesso Thompson – si prefiggeva di raccontare la storia dimenticata di quella che fu la prima classe operaia organizzata al mondo, cercando «di riscattare dall’enorme condiscendenza dei posteri il calzettaio povero, il cimatore luddista, il tessitore a mano ‘antidiluviano’, l’artigiano e operaio specializzato ‘utopista’ e perfino il seguace deluso di Joanna Southcott», è fuori catalogo. Un libro che ha appassionato due generazioni di «storici sociali» per la sua griglia di ricerca che va sottratto all’accademia per aver costituito una miniera per chi vuole esercitare una critica del presente storico.

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