Ne «I cani e i lupi» la storia (autobiografica) di una famiglia ebrea di Kiev emigrata in Francia «C aro amico, non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere fa passare il tempo». Così una lettera della scrittrice ebrea di origine ucraina, Irène Némirovsky al suo editore Albin Michel datata 11 luglio 1942.
Ne «I cani e i lupi» la storia (autobiografica) di una famiglia ebrea di Kiev emigrata in Francia «C aro amico, non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere fa passare il tempo». Così una lettera della scrittrice ebrea di origine ucraina, Irène Némirovsky al suo editore Albin Michel datata 11 luglio 1942. Due giorni dopo fu prelevata dai gendarmi francesi dalla sua casa di Issy-l’Évêque, in Borgogna, trasferita a Toulon-sur-Arroux. Dopo una notte trascorsa al campo di smistamento di Pithiviers, lasciò la Francia destinata ad Auschwitz, dove morì il 19 agosto. Lei stessa in quelle righe scritte a Michel mise nero su bianco un aggettivo che definisce la natura della sua notorietà dei tempi recenti: «postuma». Autrice dal successo postumo dovuto alla riscoperta di uno dei suoi capolavori, forse il più grande: Suite française, pubblicato con immediato successo in Francia nel 2004 e che l’ha resa nell’arco di poco tempo un fenomeno letterario mondiale, con traduzioni in circa 40 lingue e svariati milioni di copie vendute. Postume le sue prime opere pubblicate dopo la sua «scomparsa» e non ancora ufficializzata la morte La vie de Tchekhov (La vita di Cechov) del 1946 e Les Feux de l’automne (I falò dell’autunno) del 1948. Postumo il prestigioso premio letterario, il Prix Renaudot riconosciuto alla memoria. Ma soprattutto postumo e insoluto l’interrogativo che continua a serpeggiare nella mente di molti: perché lei che era già scrittrice di successo nella Francia degli anni 30 e 40 non scelse subito la via dell’esilio riparando in Inghilterra o Svizzera? Perché una donna scampata alla rivoluzione russa, alla furia dei bolscevichi, soccombette al rigurgito antiebraico della Vichy collaborazionista del 1940? Della morte di Irène, allora non si ebbe notizia: si tratta in questi casi di un evento intuito ma non comunicato, un dettaglio che amplifica il senso di tragedia e inanità delle persecuzioni razziali. All’esterno, coloro che l’amavano e che la conoscevano, registrarono la sua mancanza come un’assenza. Il 24 dicembre 1945 un giornalista olandese aveva scritto a Irène per chiederle di pubblicare alcuni suoi romanzi in Olanda. A rispondergli sarà Albin Michel: «Non posso trasmettere la sua lettera alla destinataria. La signora Némirovsky è stata arrestata nel luglio del 1942 e pare deportata in Polonia. Dal giorno del suo arresto nessuno ha più saputo niente di lei». Dunque inghiottita nel nulla, un nulla popolato dal silenzio e dalla feroce incredulità a dire le cose come stanno, anche se è la stessa ragione a condurre alla conclusione che degradata a un numero, fosse stata uccisa.
La sua nascita a Kiev l’11 febbraio 1903. Irène è figlia di un abile commerciante ebreo ucraino diventato poi ricco banchiere, Leon Némirovsky e di Fanny, (Faïga in ebraico), donna vanitosa e calcolatrice. La piccola avverte da subito il distratto affetto del padre e la freddezza della madre. A colmare quel vuoto, solo la governante Zezelle che le insegna il francese e per la quale Irène nutrirà un affetto sconfinato. Da adolescente viene colta dalla Rivoluzione d’ottobre, in fuga con la famiglia dapprima in Finlandia, in poi Svezia, alla fine l’approdo sicuro è a Parigi. E le cose per i Némirovsky si mettono bene. Leon riesce a salvare quasi tutte le sue fortune, ciò che permette a Fanny e alla figlia di vivere appieno lo splendore degli anni 20. Anni ruggenti spesi nel lusso di feste e viaggi a Biarritz e in Costa Azzurra. Irène non resta a guardare. Anzi fa le sue esperienze come scrive da Nizza: «Mi agito come una pazza, che vergogna! Non faccio altro che ballare. Ogni giorno, nei vari alberghi, ci sono dei galà molto chic, e poiché ho la fortuna di poter disporre di qualche gigolo, mi diverto moltissimo». Poi, facendo il bilancio del viaggio: «Non ho fatto la brava, tanto per cambiare. Il giorno prima della partenza, al nostro albergo, il Negresco, c’era una festa, mi sono scatenata fino alle due del mattino; dopo sono andata a flirtare bevendo champagne ghiacciato in mezzo a una corrente d’aria fredda». Insomma è il periodo delle scoperte, ma non si fa divorare dal vortice spersonalizzante di feste, ritrovi notturni e amplessi fuggevoli. Al contrario della madre, Irène vide sempre con lucidità il volto fatuo di quel mondo e ne uscì indenne investendo negli affetti, sposando il banchiere Michel Epstein, ebreo anche lui, unione arricchita dalla nascita delle due figlie: Denise e Elizabeth. Poi si laurea alla Sorbona e soprattutto dà libero sfogo alla passione della sua vita, la scrittura.
L’affermazione a 26 anni, nel 1929, quando pubblica il suo primo romanzo di successo David Golder che la proietta nel gotha letterario francese. La storia è quella di un ebreo votato al guadagno, che accumula ricchezze al pari del disprezzo che lui nutre per i suoi simili, ricambiato con la stessa moneta da moglie e figlia che lo abbandonano quando lui perde tutto. Ormai vecchio e senza mezzi morirà tra le braccia di un ragazzo ebreo povero e sconosciuto che era andato a soccorrerlo. Da allora, Irène inanella un successo dopo l’altro. Da Le Bal (Il Ballo), Les Mouches d’automne (Come le mosche d’autunno), L’Affaire Courilof (L’affare Kurilov), a Jezabel e Le vin de solitude (Il vino della solitudine).
Una scrittrice di talento, che affrontò l’oceano della letteratura con grazia stupefacente e gusto incredibile. Abile nello scrivere storie crudeli e brillanti a un tempo, insuperabile nel tratteggiare ambienti e caratteri. Capace di leggere i suoi tempi. Nel 1933, quando Hitler salì al potere non potè fare a meno di esclamare: «Entro poco saremo tutti morti». Invece la cieca fiducia nel processo di assimilazione che l’aveva fatta entrare a pieno titolo nell’alta borghesia parigina, la tradì e non le aprì gli occhi neanche quando la Francia le negò più volte la cittadinanza, «perché — ripeteva — a noi non può succedere nulla». E forse credeva che l’etichetta di scrittrice antisemita pur essendo ebrea le facesse da scudo. Eppure lei stessa proprio in Les chiens et les loups (I cani e i lupi, in edicola questa settimana con il «Corriere»), sostiene che le proprie origini non si potranno mai cancellare. Nel romanzo narra la storia autobiografica dei Sinner, famiglia ebrea ucraina che fugge da Kiev a Parigi. Al suo interno i parenti poveri e quelli ricchi. Ma è proprio il povero che dirà al ricco: «Tu che non vuoi avere niente in comune con la marmaglia giudea! Lascia passare un po’ di tempo. Presto ti confonderanno di nuovo con quell’ambiente! Tornerai a farne parte, tu che ne sei uscito, che hai creduto di liberartene!».
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