Quattro autori ungheresi ridanno forza alla cultura europea
Quattro autori ungheresi ridanno forza alla cultura europea
Mentre l’Europa sta attraversando una crisi economica severa pare che anche la cultura, e soprattutto la letteratura in questa fine d’anno che già si prepara ai bilanci, stia gravemente soffrendo. Dilagano i libri di narrativa d’intrattenimento, i bestseller prefabbricati vagamente porno, verso i quali ormai il gusto del pubblico sembra essersi orientato. Tutto è solo mercato, allora? Scopo e ragione della vita è soltanto il possesso del denaro? (E intanto masse enormi di persone, famiglie intere si stanno pericolosamente impoverendo). Il vecchio segno distintivo dell’umanità, l’esistenza della coscienza, pare essere messa sotto i talloni. Ma quello che per comodità chiamiamo letteratura, le opere letterarie più profonde e belle esistono ancora, eccome. E vengono da Paesi europei molto più in crisi del nostro — vengono ancora una volta dall’Est, per esempio dall’Ungheria, dai Paesi dei Balcani — e da quelli più lontani, dalla Russia, dalla Cina, dal Vietnam.
Settanta o ottant’anni fa dall’Ungheria erano arrivati romanzi davvero commerciali, che diventavano bestseller in un batter d’occhio, Zilahy, Kormendi, Herczeg, Molnàr… Oggi proprio da quella nazione arrivano invece veri capolavori della letteratura.
Qui vorrei parlare brevemente di quattro libri che sono usciti in questi mesi. Uno di questi è di Susann Pásztor, ed è stato pubblicato in Italia da Keller editore, una piccola e meritevole casa editrice di Rovereto, provincia di Trento. Il titolo del libro è Il favoloso bugiardo, l’autrice Susann Pásztor, è una ungherese che scrive in tedesco, visto che vive in Germania. La storia raccontata in questo romanzo in forma di confessioni di una ragazza di sedici anni è un po’ un thriller, un po’ una saga di famiglia. Tutta la vicenda ruota intorno alla ricerca di tre individui, due sorelle e un fratello che vogliono scoprire la vera identità del loro padre già deportato a Buchenwald, sopravvissuto e poi impelagato in vari matrimoni e vicende amorose. A poco a poco viene fuori che quest’uomo probabilmente non era né ebreo, né era stato deportato, né era qualificabile con nulla tranne che con la sua attitudine di Don Giovanni e di bugiardo impenitente. La vera identità non si scopre e i tre fratelli più la figlia di una delle due sorelle ripartono da Buchenwald con tutti i punti interrogativi irrisolti con i quali erano arrivati fin lì.
Un romanzo di successo (almeno in Germania), ma che nello stesso tempo agita problemi che coinvolgono l’intera Europa, che della soluzione di enigmi del proprio passato non ha voluto mai occuparsi fino in fondo (tranne le debite eccezioni). Con i risultati che vediamo: il ritorno dei fantasmi di una destra eversiva, pronta alla violenza e al più selvaggio razzismo.
Le altre pubblicazioni, oltre a questa, di cui voglio far menzione sono di due autori di diverso calibro. Sono Non c’è arte di Péter Esterházy e Kornél Esti di Dezsö Kosztolányi. Il primo pubblicato da Feltrinelli, il secondo da Mimesis. Esterházy è ben noto al pubblico italiano e in questo romanzo «postmoderno» si conferma il suo talento, la sua verve da grande Pierino della letteratura. Già, perché le due case editrici piccole (Keller e Mimesis) e la grande Feltrinelli si occupano di letteratura. Di libri che parlano alla coscienza, alla fantasia, alla sensibilità, ai pensieri del lettore e non soltanto alla sua curiosità di pettegolo ficcanaso, o di guardone sentimentale.
Non c’è arte, eccentrica e spassosa narrazione di un rapporto madre-figlio e di un epocale cambiamento di regime fa parte della migliore produzione letteraria, sì, letteraria di Esterházy e della narrativa ungherese, oggi forse capofila nella difesa di quest’arte. Il titolo nega l’esistenza dell’arte ma il libro in sé la pratica e la conferma in pieno. Quel titolo (Non c’è arte) pare rimandare a un’espressione ungherese che in italiano io tradurrei con «non c’è trucco, non c’è inganno». Infatti, nonostante le tante trappole narrative del libro, lo spunto autobiografico contiene un che di veramente autentico, cosa che manca nell’orizzonte attuale della letteratura.
Il terzo, il libro uscito da Mimesis, è un romanzo intitolato Kornél Esti: è un vero capolavoro della narrativa degli anni Trenta, un’opera di livello mondiale. L’autore, Dezsö Kosztolányi, era poeta, narratore, traduttore, giornalista. Ha fatto moltissimo per la diffusione della cultura europea in Ungheria e per il rinnovamento della lirica e della narrativa del suo Paese. In questo romanzo, che è una raccolta di brani usciti in vari anni, alcuni addirittura postumi, c’è un protagonista, Kornél Esti, le cui funamboliche vicende unificano quelle brevi narrazioni. Si tratta di racconti di una freschezza, d’un incanto e di un umorismo difficili da immaginare e eguagliare. Il loro contesto è l’Europa, anzi l’Impero post asburgico. Siamo negli anni 1910-1930. Ma non si tratta di un’esibizione da acrobata della letteratura, si tratta invece di un autore sensibilissimo, mai volgare, mai esibizionista, eppure vitale e rivitalizzante.
Dove andare a pescare qualcosa di simile nella letteratura odierna? Questi libri, dei quali si parla qui, non sono semplici storie («Ho una storia bellissima! Ho una storia bellissima!») — no! — sono veri pezzi di letteratura. Quella che il mondo occidentale vuole distruggere o ha già distrutto, come anticaglia inservibile perché non fa abbastanza soldi.
Il caso di Péter Nádas, ungherese anche lui, meriterebbe un discorso a sé. Il libro delle memorie, pubblicato in Italia da Dalai, oggi è noto in tutto il mondo. È uno dei migliori romanzi pubblicati in questi ultimi anni. Il premio Nobel per lui? Speriamo.
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