Il futuro ricomincia da noi E dal whisky di Glasgow

Ken Loach Il regista britannico è a Roma per presentare il suo film «La parte degli angeli», nei cinema italiani dal 13 dicembre

Ken Loach Il regista britannico è a Roma per presentare il suo film «La parte degli angeli», nei cinema italiani dal 13 dicembre

Negli anni Sessanta si parlava della crisi del capitalismo. Adesso è arrivata sul serio, è il momento di organizzarci. Non esiste nessun centrosinistra, ma solo la sinistra. Deve trovare il suo motore e nuovi modelli di economia Disoccupazione, multinazionali, Europa neoliberista. La ricetta per ribellarsi è semplice: «La solidarietà è l’unico riscatto possibile» Secondo Ken Loach, la Gran Bretagna e l’Italia condividono una stessa triste prospettiva: stanno per andare alle elezioni e con molte probabilità, in entrambi i paesi, vincerà il centrosinistra. «Uno schieramento che non esiste – dice il regista inglese – se sei a favore di un’economia di mercato e della deregulation, ti collochi a destra; se invece caldeggi per i beni comuni, sei a sinistra. Chi si dichiara di centro, deve fare attenzione: nel piazzarsi al centro della strada, infatti, ci sono buone probabilità di venire investiti!».
Politicissimo e divertente come sempre, Loach è a Roma al seguito del suo ultimo film, premio speciale della giuria a Cannes, La parte degli angeli (nelle sale dal 13 dicembre, distribuisce Bim), il cui titolo poetico si riferisce alla quota di whisky che evapora, quel 2% di scotch custodito nelle botti delle distillerie destinato a scomparire nell’aria. «La sua fabbricazione è un’arte raffinata, per descrivere la fragranza e l’aroma del whisky si usa un linguaggio stravagante – dice – ma quel liquore è troppo caro per i giovani che si ubriacano con bevande più economiche. Anche io, in fondo, preferisco un bel bicchiere di vino!».
Una storia dai toni «fruttati» quindi, mai zuccherosa, che segue l’esistenza difficilissima di Robbie, teppistello di Glasgow che non sembra avere grandi chance davanti a sé. Ha una fedina penale spaventosa ma come in una favola, s’imbatte in un tris di occasioni per il riscatto: diventa padre, conquista un assistente sociale che non ha dimenticato il valore della solidarietà e ha «naso» (pure palato) per riconoscere la rarità di un whisky, la bevanda nazionale. Ce la farà a tirarsi fuori dai guai, dopo uno spettacolare furto del preziosissimo liquore e con l’aiuto di altri sbandati come lui. È stato lo sceneggiatore Paul Laverty, collaboratore di lunga data del cineasta a trovare Robbie (Paul Branningan), ragazzo che ha cominciato anche la vita vera in salita, senzatetto a 13 anni, in carcere durante l’adolescenza.
Il tema del lavoro e del disagio della working class, Loach lo affronta ripartendo dal suo gran rifiuto, quello di non ritirare nessun premio al festival di Torino. «Mi è dispiaciuto, era un onore anche per tutti coloro che lavorano con me, ma è stata una questione di principio, ho preferito appoggiare i lavoratori ‘esternalizzati’ del museo del Cinema. Il problema era stato sollevato già in estate: salari bassissimi, ulteriore taglio del 10% sugli stipendi, cinque iniqui licenziamenti. Dal Museo mi hanno risposto che non sono responsabili dell’operato di terzi, tantomeno dell’azienda che li aveva assunti. Se si accetta questo, tutti possono declinare ogni responsabilità, anche perché la sola ragione per cui viene dato lavoro esternamente è l’abbattimento dei costi. Sono stato definito ‘megalomane’, ma il punto non è che io vada a un festival oppure no; centrale è la perdita di lavoro, sono le persone sottopagate, con difficoltà di rappresentanza sindacale…». Lui, quei lavoratori della Rear, li incontrerà oggi a Torino.
In un momento sociale così critico e dopo un film sulla guerra in Iraq, Loach con La parte degli angeli ha voluto «raccontare la storia di milioni di individui in Europa che non hanno lavoro né un futuro. Ma non ho presentato nessuna vittima, per coinvolgere il pubblico bisognava farlo affezionare ai personaggi e il senso dell’umorismo ha favorito l’identificazione… Le avversità producono comicità. Ridere insieme nelle circostanze più disperate può essere un atto di solidarietà».
C’è qualcos’altro. In un periodo storico aggredito dalla globalizzazione, Loach rispolvera una gloria nazionale scozzese, come il whisky e le sue distillerie. «Il whisky è prodotto da centinaia di anni, prescinde dalla globalizzazione. Potremmo dire che andava molto meglio prima, quando le distillerie non erano di proprietà delle grandi multinazionali. Più il capitalismo si sviluppa, più crescerà la disoccupazione. Le multinazionali hanno bisogno della disoccupazione per tenere bassi i salari, per aggredire il costo del lavoro».
Esiste allora un modello alternativo di economia? «È ora che la sinistra trovi il suo motore, capisca che il mercato non è l’unica strada percorribile. L’Europa ha preso una direzione comune che non è affatto strana, i politici reagiscono tutti alla stessa maniera perché l’Unione europea è un’organizzazione neoliberista, spinge per le privatizzazioni. Anche in Grecia stanno svendendo ciò che hanno. Quello che andrebbe infranto è il rapporto fra politici e multinazionali. Così, ritornando al concetto di ‘centrosinistra’: se significa accettare le misure di austerity e anche le privatizzazioni ma con processi più lenti, allora non capisco la differenza che c’è fra l’essere strangolati velocemente o piano piano….».
Una via di uscita da questa impasse, anche morale, ci sarebbe secondo Ken Loach: basterebbe frugare nel passato e ricordarsi «com’eravamo». «Negli anni Sessanta – continua – parlavamo della crisi del capitalismo. Adesso è arrivata sul serio, è il momento di organizzarci. I vari governi stanno strappando via gli ultimi brandelli della società civile. Nel mio paese, tolgono il sostegno ai disabili, si costringono le persone a vivere con i genitori, gli ospedali sono affollati e hanno standard penosi. Noi non possediamo più nulla dell’economia. È urgente un modello nuovo. Mi piace ripetere lo slogan dei sindacati Usa: agitate, educate e organizzate».
E in una prospettiva di lotta contro le degenerazioni del presente, il cinema è un soggetto attivo? «I registi impegnati ci sono. Da Occupy ai movimenti anti-guerra, la preoccupazione è mondiale, ma siccome il cinema è un’industria e i filmmaker sono costretti a diventare imprenditori, non sempre tutto questo si ritrova sul grande schermo. Il meccanismo della produzione e dei finanziamenti ha un potere bloccante e le idee a volte si trasformano per adattarsi al mercato». Però, assicura Loach, c’è stato un periodo (quasi) peggiore di questo. «Gli anni Ottanta, l’arrivo di Margaret Thatcher. Quello che è accaduto nel nostro paese è stato talmente estremo che non riuscivo a rispondere col cinema. In una manciata di mesi, i disoccupati salirono da 500mila a tre milioni, mentre le fabbriche chiudevano e i sindacati indicevano scioperi che non potevano vincere. La situazione era incontrollabile. Eravamo tutti in mezzo a una tempesta. Anche io. Ho girato documentari (banditi perlopiù), poi ho provato al teatro (rifiutato e tacciato di antisemitismo), dopo dieci anni ho avuto fortuna e sono tornato ai film…».

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