Enrico Pugliese, mezzo secolo di studi sul Mezzogiorno

Era presente il meglio della ricerca sociale italiana nel colloquio «Mezzogiorno, lavoro e società » che si è tenuto lunedì a Napoli in onore di Enrico Pugliese per il suo commiato dall’accademia. Il titolo sintetizza i tre filoni principali della ricerca di Pugliese, come si è snodata per quasi mezzo secolo.

Era presente il meglio della ricerca sociale italiana nel colloquio «Mezzogiorno, lavoro e società » che si è tenuto lunedì a Napoli in onore di Enrico Pugliese per il suo commiato dall’accademia. Il titolo sintetizza i tre filoni principali della ricerca di Pugliese, come si è snodata per quasi mezzo secolo.
Niente di cerimoniale nelle relazioni – dopo l’affettuosa presentazione di Luciana Castellina che ha presieduto ai lavori. Giovanni Mottura ha rivendicato con orgoglio la differenza tra fare sociologia e fare «inchiesta» (il riferimento è alla rivista Inchiesta, il cui primo numero uscì nel 1971 e a cui è rimasto legato il binomio Giovanni Mottura/Enrico Pugliese): una distinzione che Massimo Paci ha voluto ricomporre quando ha parlato dei vari stadi della conoscenza sociale, per cui la sociologia ha bisogno di un’indagine «prescientifica» su cui elaborare le proprie categorie.
Mentre Ota De Leonardis ha sottolineato la voragine che all’interno della sociologia «di sinistra» divideva negli anni Settanta i «lavoristi» dai «welfaristi»: chi si concentrava sulla disoccupazione e chi lavorava sulla follia: per ricorrere ai nomi dei numi tutelari, la voragine che separava un Bruno Trentin da un Franco Basaglia: «ma ambedue queste posizioni sono state spazzate via, e ora ci troviamo sulla stessa riva ricoperta di macerie» ha concluso De Leonardis.
Parlando del recente congresso internazionale di sociologia che si è tenuto a Bueons Aires, Bianca Beccalli ha osservato come il suo leit-motif fosse «la sociologia dopo il neoliberismo», cioè quale sarà il destino di una disciplina per eccellenza «sociale» in un mondo dominato da una teoria economica che non riconosce altra realtà oltre quella dell’individuo e squalifica ogni categoria sociale che non sia quella dell’impresa, dell’azienda, della ditta.
Goffredo Fofi ha ricordato la Napoli degli anni Settanta, del sindaco Valenzi, di Fabrizia Ramondino: nel suo intervento non poteva mancare la frecciatina contro il manifesto definito «borghesia togliattiana».
Prendendo spunto dal libro curato da Pugliese Razzisti e solidali (1993), il sociologo di origine indiana Ash Amin, oggi a Cambridge, ha sviluppato un’interessante teoria sulla biopolitica dei corpi, alla cui differenza si deve apprendere a restare indifferenti.
Ma di certo il tasto più dolente è stato il Mezzogiorno, tema affrontato con passione, quasi con rabbia dal presidente dello Svimez (l’associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno fondata nel 1946 da Pasquale Saraceno, Rodolfo Morandi e Donato Menichella) che si è chiesto perché l’Italia non può fare con il sud quel che l’Europa ha fatto con l’Irlanda: adottare un regime fiscale più favorevole. Ma Ada Becchi ha obiettato che in Italia uno sgravio fiscale eccezionale la Sicilia l’ha già avuto da 60 anni, con pessimi risultati.
Per Peter Kammerer (tra l’altro curatore nel 2008 di una succinta, gustosa antologia di Marx presso Feltrinelli) il problema oggi della Grecia, e più in generale del sud dell’Europa, è affine a quello che l’Italia affrontò dopo la seconda guerra mondiale, e Bruxelles e Berlino avrebbero molto da imparare da quell’esempio.
Sul Mezzogiorno, la battuta più dolente l’ha detta Enrico Pugliese, quando ha ricordato quella scuola di pensiero che individua nel lontano passato storico le radici delle difficoltà del Meridione a uscire dal sottosviluppo, dal fallimento della rivoluzione dei comuni al dominio degli aragonesi, per cui «se il Meridione vuole avere un futuro, farebbe bene a dotarsi di un buon Medioevo».

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