Contro chi distrugge il sapere Università  Bene Comune

Un filo rosso lega le riforme Berlinguer, Moratti, Mussi, Gelmini e Profumo: lo smantellamento della ricerca libera e un controllo gerarchico e centralizzato delle «baronie» sul reclutamento. Reagire è necessario. Ecco come Cosa accadrebbe a un’industria di punta se nel giro di quindici anni fosse sottoposta a tre mutamenti radicali delle proprie strutture produttive e organizzative, delle proprie finalità  e per giunta mutasse anche i criteri di selezione del proprio personale? Pensiamo che in poco tempo sarebbe ridotta ben peggio della confusione cui è ridotta la Fiat. Ebbene questa è la politica universitaria dei vari governi succedutisi in questi quindici anni.

Un filo rosso lega le riforme Berlinguer, Moratti, Mussi, Gelmini e Profumo: lo smantellamento della ricerca libera e un controllo gerarchico e centralizzato delle «baronie» sul reclutamento. Reagire è necessario. Ecco come Cosa accadrebbe a un’industria di punta se nel giro di quindici anni fosse sottoposta a tre mutamenti radicali delle proprie strutture produttive e organizzative, delle proprie finalità  e per giunta mutasse anche i criteri di selezione del proprio personale? Pensiamo che in poco tempo sarebbe ridotta ben peggio della confusione cui è ridotta la Fiat. Ebbene questa è la politica universitaria dei vari governi succedutisi in questi quindici anni.
Distrutta l’università pubblica Nel 1999 viene varata la riforma Berlinguer, meglio conosciuta come 3+2. In nome dell’adeguamento agli standard europei la laurea quadriennale è sostituita da due livelli di laurea, uno triennale di tipo generalistico, l’altro biennale specialistico, e si avvia la definitiva dismissione della vecchia università di stampo liberale, che nessuno rimpiange, trasformata in un’università tendenzialmente professionalizzante. Le due riforme successive – quella Moratti e quella Mussi – ribadiscono quest’impianto, mutando in pochi anni e in maniera contraddittoria i requisiti didattici necessari perché le università possano aprire nuovi corsi di laurea e le modalità di reclutamento.
Il completamento della trasformazione in senso liberista e di forte condizionamento di mercato sulla didattica e sulla ricerca avviene con la riforma Gelmini. Nel giro di un anno nel 2011 e con l’espresso vincolo di una riforma a costo zero, la legge 240 soppianta le Facoltà con i Dipartimenti, perseguendo un ideale quanto inesistente «modello americano», ma la mancanza di una tradizione pluridisciplinare e la resistenza delle caste accademiche, hanno reso questi Dipartimenti più l’aggregazione casuale di gruppi di potere tradizionali che degli organismi di nuova ricerca. Il vero governo delle università si è andato concentrando nelle mani di Rettori e di un Consiglio di amministrazione scelto dal Rettore che prevede la presenza determinante di «esterni» che vengono anche dal mondo dell’industria e delle professioni. È il Consiglio d’amministrazione che oggi decide la gestione delle risorse, la ripartizione dei posti sui vari settori scientifici, l’ammontare delle tasse universitarie. Per chi si domanda se altre risorse possono essere tagliate all’Università la risposta deriva dalla comparazione con gli altri paesi industrializzati: l’Italia è al 32mo posto tra i 34 paesi Ocse come stanziamenti per la didattica, mentre spende molto meno dei principali paesi europei come stanziamenti per la ricerca.
Lo studio non è più un diritto Quando a questo quadro si aggiunge un turn-over portato a un reintegro di un lavoratore ogni otto pensionamenti e il taglio dei finanziamenti ordinari alle Università di oltre il 30%, si capisce che l’Università pubblica non solo non è una priorità della politica ma diviene parte di un sistema pubblico dell’istruzione e della ricerca da ridimensionare e trasformare – nelle sue punte più avanzate – secondo un modello censitario e di classe. In questa ottica, l’aggravio delle tasse diventa l’unica perversa forma di finanziamento dell’istituzione.
Con le nuove norme fissate dal maxiemendamento 95/2012 sulla spending review, il governo Monti, sulla scia già tracciata da Berlusconi, esce quindi allo scoperto sulla politica universitaria, tagliando ogni possibilità di investimento verso gli Atenei e penalizzando l’accesso degli studenti con l’inasprimento delle tasse e minacciando costantemente l’abolizione del «valore legale del titolo di studio».
Una manovra palesemente incostituzionale, che contraddice non solo il dettato dell’art. 34 Cost. («I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»), ma anche lo stesso art. 33, per quanto attiene al diritto all’accesso ed il carattere «pubblico» degli stessi atenei. Con la spending review si arriva a modificare il tetto del 20% nel rapporto tra la contribuzione degli studenti e il Fondo di finanziamento ordinario, con un meccanismo che tende a penalizzare i fuoricorso (pensiamo, ad esempio, agli studenti lavoratori) e le fasce di reddito superiori a 40mila euro lordi (non proprio i ricchi), con aumenti che rasentano il 100%.
Una manovra beffarda, ideata per scaricare sugli studenti i tagli operati in questi ultimi anni al finanziamento ricevuto dallo stato, banalizzata dallo stesso ministro Profumo che etichetta i fuori corso come un peso per l’università italiana, senza considerare che, proprio per gli scarsi investimenti e l’alta tassazione, il 50% degli studenti è costretto a lavorare per pagarsi gli studi. Ma c’è di più: in alcune Regioni, come la Campania, la stangata è aggravata dall’aumento, previsto sin dal prossimo anno 2012-2013, della Tassa regionale per il diritto allo studio, prevista dai decreti attuativi della 240/2010 (Riforma Gelmini) e suddivisa per fasce di reddito, con un minimo di 140 euro, contro la precedente tassa unica di 62, con un incremento pari al 126%.
Ma non basta, poiché chi prima beneficiava di borse di studio domani potrà solo ricorrere al prestito d’onore, altro aspetto della privatizzazione entrata come criterio di gestione nelle Università. Si tratta di un perverso meccanismo di erogazione di prestiti da parte delle banche (e l’Università ci rimette l’1% come garanzia di fideiussione) che devono essere restituiti con i futuri stipendi. Ci si domanda quali considerando che il tasso di disoccupazione dei laureati è pari all’8%. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dove è in vigore il prestito d’onore si è avuto un incremento vertiginoso dei suicidi di studenti che non riuscivano a restituire alle banche i crediti ricevuti.
Ricerca anno zero
Non molto meglio funziona la tutela del diritto a una ricerca di base libera e indipendente. Oltre ai tagli verticali a tutti gli enti di ricerca, la riforma Gelmini e i provvedimenti di Profumo stanno ridisegnando in senso autoritario la politica del personale dentro le Università. «Via le baronie dall’Università»: questo lo slogan ideologico usato dal governo Berlusconi per giustificare l’approvazione della legge Gelmini. Risultato: con la riforma, nelle commissioni dei concorsi siedono solo i professori ordinari (prima era garantita la presenza di ricercatori e associati), i ricercatori a tempo indeterminato sono divenuti un ruolo ad esaurimento, al loro posto ci sono nuove figure precarie che dopo sei anni al massimo, se i loro atenei non hanno risorse per assumerli, sono licenziate.
E a proposito di concorsi, il Ministero ha bandito le sospirate abilitazioni nazionali per associato e ordinario. I criteri per l’ammissione dei candidati sono stati decisi dall’Agenzia di Valutazione Nazionale, altro organo che commissaria di fatto l’autonomia degli atenei e delle comunità scientifiche.
Questa agenzia doveva operare per individuare i punti di sofferenza del sistema e correggerli. In realtà sta operando come un organo del Ministero (il controllato che controlla il controllore) decidendo, con procedure valutative scelte autoritativamente, sia i criteri di accettabilità della ricerca scientifica che la conformità delle strutture didattiche delle università «autonome». Un esempio: per essere ammessi alle abilitazioni nazionali bisogna superare dei parametri rigidi e quantitativi (quanti libri o articoli pubblicati, quante citazioni ricevute) che premiano quelli che scrivono di più (ma non cosa scrivono, che non è oggetto di valutazione) e soprattutto nei luoghi giusti, ossia quelli dichiarati tali dai gruppi che contano. In nessun paese del mondo indicatori di tipo quantitativo sono utilizzati per la «selezione automatica» dei singoli ricercatori.
L’Università Bene Comune
Il malato è terminale, la cura per uccidere l’Università pubblica sta riuscendo. Prima che ciò avvenga riteniamo sia necessario promuovere una mobilitazione di quanti hanno ancora una cultura dei diritti, nei partiti come nelle associazioni e nella società civile. Una base di discussione può essere il documento «Per Salvare e Rilanciare l’Università» (sottoscritto il 7 luglio di quest’anno da molte sigle del mondo universitario). Da cui riprendiamo solo alcune delle possibili risposte ai problemi che abbiamo elencato nel nostro articolo: «1) Realizzare un vero diritto allo studio, assicurando a tutti gli studenti idonei la borsa di studio, aumentando e migliorando i servizi (biblioteche, aule, laboratori, ecc.) e migliorando le condizioni di vita degli studenti (residenze, mense, ecc.); 2) In alternativa ai poteri immensi e antidemocratici del rettore e del Cda, rafforzare il senato accademico, direttamente eletto da tutte le componenti, con responsabilità di programmazione, coordinamento e controllo; 3) Introdurre meccanismi di reclutamento in ruolo che impediscano la cooptazione personale; avanzamento di carriera basato esclusivamente su valutazioni individuali, all’interno di un ruolo unico della docenza, senza distinzioni di funzioni e di diritti e doveri, in cui comprendere gli attuali ordinari, associati e ricercatori».
Certo, non siamo in India, paese che ha costruito la sua competitività mondiale proprio investendo in università e formazione, ma in Italia, dove invece di riorganizzare gli Atenei, riformandone struttura e organizzazione, si dà l’affondo definitivo all’Università pubblica, facendo ricadere le responsabilità dello sfascio sugli studenti. Un ulteriore segno di un’arretratezza culturale che richiede un’immediata e radicale inversione di tendenza, da subito impugnando il testo dinanzi la Corte costituzionale per palese violazione dei principi fondativi della nostra Carta.

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