Sebastiano Vassalli: che uccida o dia la felicità , è l’unica cosa che ci resta
Sebastiano Vassalli: che uccida o dia la felicità , è l’unica cosa che ci resta Comprare il sole è un romanzo sfuggente, che attrae nella misura esatta in cui respinge. Non deve, il lettore, trovarcisi a suo agio; e deve compiacersi di questo, guai il contrario. Non è facile trovare la distanza; e non dev’essere stato facile, per Vassalli, elaborare una simile, sfibrante ondulazione prospettica.
Il tour de force è doppio, tematico e stilistico. Cominciamo dal primo. Comprare il sole narra, coi toni e le movenze della favola, la storia di una vincita alla lotteria. È capitata alla persona giusta: Nadia Motta, la protagonista — ventiquattro anni, qualche lavoretto saltuario, un fidanzato con cui convive perché attratta dal suo lato B, ovvero un bel sedere, un temperamento da Babbeo e un mutuo a tasso variabile che incombe sulla villetta in cui abitano — è convinta fin dalla più tenera età che l’unica cosa che conta sono i soldi. Niente altro esiste. Quella vincita, ventuno milioni e seicentomila euro, le cambierà la vita, le regalerà la vera vita, quella che si merita. La previsione si realizza fin troppo. Niente andrà per il verso giusto, pur avendo Nadia ottemperato col più zelante degli scrupoli ai comandamenti della sua religione: mollare il Babbeo, cambiare città, farsi aiutare da un amante, da un avvocato, da un’accolita di loschi intermediatori finanziari a mettere al sicuro il suo capitale in qualche paradiso off shore, perché pagare le tasse dio non voglia. Conquistati con la capricciosa rapidità con cui arrivano, nelle fiabe, i doni degli aiutanti magici, i suoi soldi evaporeranno nella stessa imperscrutabile maniera.
Fatto notevole è che lei non se ne sorprenda: questa è la legge metafisica, scrive Vassalli, che presiede al paese in cui si svolgono i fatti, la Repubblica delle favole su cui aleggia la presenza numinosa del Signore dei Saldi e dei Soldi, che ci visita nei sogni. Non protesta, non rivendica, non si impanca nemmeno a ragionare sul giusto e sull’ingiusto, nella sua storia come nel mondo che la ambienta. È così che stanno le cose, per lei e per gli altri personaggi, il fidanzato Eros, la madre Stefi femminista storica, l’amante Alessandro intellettuale di sinistra e professore universitario, l’avvocato Zoppi, il faccendiere El Niño, i poliziotti, i magistrati… Tutti fregano tutti, punto e basta. Da nessuno viene mai altro che una prona accettazione. Il mondo dei mutui, delle lotterie e dei saldi non è diviso per Vassalli in vittime e carnefici, e anzi: se fa così schifo è colpa semmai delle presunte vittime, ivi compresi quelle che invece protestano (manifestanti, disoccupati, agitatori) in nome di un diritto alla felicità che non si capisce chi dovrebbe garantirgli. Di rado è dato di vedere, in un romanzo, un simile accanimento contro chi sta in basso, il che spiega forse il ricorso alla favola, nella variante cinica del «te la sei voluta». (Non li abbiamo mica costretti noi ad accumulare mutui su mutui per la casa, la macchina e la barca, si giustificavano nel 2008 i maghi di Wall Street; Vassalli sembra d’accordo). Al lettore non è concesso un minuto di empatia, e ci mancherebbe altro.
Qui si innesta il secondo tour de force, quello stilistico. Comprare il sole è tutto giocato su un’alternanza di imperfetto, nel suo normale valore durativo o descrittivo, e di trapassato prossimo, che funge da unico e solo tempo storico. L’azione puntuale è sempre narrata con una marca di anteriorità: aveva detto, aveva pensato, aveva preso un treno. Allontanata, messa a distanza. Ma da cosa? Non tanto dal presente nostro (i fatti si sono svolti, dice il narratore, qualche anno fa), ma dalla possibilità di abitarlo, metterci radici, farci casa. La Repubblica delle favole è trasparente satira dell’Italia di oggi; ma dove i personaggi accettano passivamente, l’autore esprime con ogni piega possibile della sua lingua estraneità e rifiuto. Intere sequenze verbali sembrano citate, virgolettate (e in molte casi lo sono esplicitamente, accompagnate magari da un «come si dice», o meglio da un «come si diceva allora»), soprattutto quelle che riguardano i pensieri, i desideri e le convinzioni dei personaggi. Vassalli, che ha firmato anni fa una bella introduzione a Bouvard e Pécuchet, è palesemente andato a scuola da Flaubert, l’iniziatore, diceva Proust, dell’uso dell’«eterno imperfetto» in narrativa, nonché il fustigatore dell’idiozia borghese da cui sempre temeva di essere contagiato: che cosa è Nadia se non una Bovary senza illusioni? Ma se Flaubert poteva dire in buona coscienza: «Madame Bovary c’est moi», dubito che Vassalli voglia fare altrettanto. Nel suo testo non c’è mescolanza, la pretesa di ricavare il bello dal banale è respinta come malafede. Tutto è secco e riarso. Comprare il sole è un romanzo disperato. Ad autore e lettore non resta che tenersi alla larga, ma a che prezzo, se ciò che devono rifiutare è la lingua che parlano, il paese in cui vivono, la storia che è anche la loro, congelata in un trapassato prossimo che non merita un tempo ulteriore con cui coordinarsi, redimersi, smentirsi.
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