SIA LODE AGLI UOMINI D’ACCIAIO

Fenomenologia del rapporto tra l’uomo e il metallo più potente. E, così si pensava, eterno. L’Italsider di Bagnoli, Sesto San Giovanni Stalingrado d’Italia, Gigi Lamera e i maghi del tornio di Jannacci, la locomotiva di Guccini Poi, la tragedia della Thyssen, la crisi dell’Ilva, la dismissione siderurgica

Fenomenologia del rapporto tra l’uomo e il metallo più potente. E, così si pensava, eterno. L’Italsider di Bagnoli, Sesto San Giovanni Stalingrado d’Italia, Gigi Lamera e i maghi del tornio di Jannacci, la locomotiva di Guccini Poi, la tragedia della Thyssen, la crisi dell’Ilva, la dismissione siderurgica

L’ultima immagine è stata quella della disperazione tarantina, nell’agosto delle vacanze: il colosso dell’Ilva con i suoi fumi e veleni, le particelle subdole e le emottisi, il quartiere dei bambini condannati, gli operai umiliati tra il tumore e un salario, il silenzio comprato e messo in bilancio. Al nord le cose non sono andate meglio. Nell’aprile del 2011, i dirigenti dell’acciaieria di Torino in cui erano bruciati vivi sette operai venivano condannati per “omicidio volontario”. E che nomi avevano! Nientemeno che Thyssen e Krupp, le due famiglie che avevano nutrito Hitler di tutto il ferro che voleva e ora trattavano Torino alla stregua di una loro colonia. Come oggi a Taranto, quegli operai che morirono uno a uno per tutto il dicembre 2007 erano da tempo «diventati invisibili», come scrisse Ezio Mauro su questo giornale. Ci mancherà, l’acciaio? Ne potremmo fare a meno? Lo rimpiangeremo? O accetteremo di morire per lui? La risposta, più ancora che nel futuro, sta in un secolo di storia epica, con un finale che nessuno avrebbe immaginato.
Cominciò con il mondo attonito a guardare in su, verso la cima della Torre costruita dall’ingegner Gustave Eiffel a Parigi con 7.300 tonnellate di ferro, continuò con le meraviglia del transatlantico Titanic, 50mila tonnellate, lavorate nei cantieri navali di Belfast e con la locomotiva di Guccini, «un giovane puledro che mordeva la rotaia con i muscoli d’acciaio». Fare l’acciaio è stata la liturgia laica del Novecento. Per officiare ci volevano giacimenti di minerali ferrosi grandi come distese lunari e le viscere della terra da cui estrarre il carbone; per benedire la loro comunione vennero costruiti degli edifici cattedrali che occupavano spazi mai pensati prima. L’uomo era piccolo, in mezzo a tanta natura, ma la domava, lei incandescente, la faceva colare in lingotti, lamelle, travi, tubi. L’acciaio formò il nostro paesaggio, spostò milioni di contadini verso le nuove città, divenne il metro su cui valutare il progresso e l’arma segreta per vincere le guerre.
In Inghilterra fu il simbolo della rivoluzione industriale e dell’Impero, negli Usa venne concupito da titani come Andrew Carnegie, la cui Us Steel diventò il più grande monopolio e la più grande società per azioni del pianeta. In Germania l’acciaio era della famiglia Krupp, la dinastia industriale che sposò il nazismo; in Urss, invece, l’acciaio divenne del popolo, o meglio del partito. L’acciaio fu, nello stesso tempo, democratico, imperiale, nazista e comunista.
Steel in inglese, Stahl in tedesco, Stalin in russo. Lì fu l’unico posto dove il capo del comunismo internazionale (all’anagrafe era un banale Iosif Vissarionovic Dzugasvili) prese addirittura il nome del materiale, per identificarsi con la forza, l’invincibilità, la freddezza. Ma anche gli altri non scherzavano. Hitler e Mussolini nel 1939 il loro accordo per dominare l’Europa lo chiamarono “patto d’acciaio”. Fallì, perché al di là dell’Atlantico gli Stati Uniti sfornarono in pochi anni talmente tanto acciaio da rendere nero di navi l’Oceano Pacifico e le coste della Normandia, e lo fecero assicurando paghe sindacali e lauti straordinari. Quando poi i maschi partirono per la guerra, negli altiforni arrivarono anche donne giovani (tante brunette con il fazzoletto a raccogliere i capelli, come quella del famoso poster che mostra il bicipite) e qualcuno sostiene che da quella esperienza cominciò il movimento di liberazione della donna.
I nazisti presero una via diversa: Krupp e Hitler sfornarono acciaio con il lavoro schiavo e i deportati, e proprio per questo persero la guerra. Stalin, invece, fu talmente affascinato dal trinomio classe operaia-acciaio-esercito che sulla siderurgia fondò i suoi piani quinquennali e con quel trio i suoi eredi martirizzarono Budapest. (Altri tempi: a Milano gli operai siderurgici, tutti stalinisti, erano quelli con i giacconi di pelle nera, quelli che «limavano la ghisa con le mani», quelli che erano stati assunti perché sapevano fare un uovo al tornio uguale preciso all’originale —osservavanoleprimepaginedell’Unitàconicarriarmati sovietici sulle rive del Danubio, soddisfatti per il buon uso che la classe operaia finalmente faceva del ferro).
Ma la più grande tragedia del pianeta l’acciaio la produsse nella Cina di Mao Zedong. A metà degli anni Cinquanta anche il Grande Timoniere diventò ossessionato dalla produzione di ferro. Convinto di poterlo produrre con minuscole fornaci in ogni villaggio, utilizzando rottami e scarti, il partito intimò a qualcosa come sessanta milioni di contadini di diventare anche operai siderurgici. Il tutto fallì in pochi anni (l’acciaio prodotto non valeva niente) non senza aver provocato decine di milioni di morti per le carestie derivanti dall’abbandono delle campagne.
E da noi? Ben prima del rogo di Torino e della scoperta del disastro di Taranto, l’epopea dell’acciaio italiana era terminata. Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, è una città terziaria, Torino si è da tempo disimpegnata, Brescia traccheggia, Piombino peggio ancora. Ma è soprattutto la siderurgia ex statale nel Meridione ad aver consumato le sue speranze. L’Italsider di Bagnoli, che con i suoi operai avrebbe dovuto guidare una nuova Napoli, è diventata una triste area dismessa. Il colossale Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, promesso dalla politica più confusionaria e più cinica a una Calabria da placare e da assistere, addirittura non vide mai la luce. Di Taranto, ora si sa. Di quella breve era ci restano però personaggi di carta, di celluloide o di vinile: l’operaio Libertino Faussone e la sua fierezza industriale (Primo Levi,
La chiave a stella); il volto di Giancarlo Giannini, sia che fosse Mimì metallurgico o il napoletano mandato dall’operaio Picone; nella musica, il Gigi Lamera di Jannacci che intagliava fiori nella lamiera per la sua bella. Era affezionato allo stabilimento, l’operaio Vincenzo Buonocore di Bagnoli (nel tristissimo La dismissione di Ermanno Rea). A rendere insopportabili gli uomini d’acciaio è poi arrivata l’anno scorso una ragazza di Piombino raccontando del maschilismo siderurgico, e per poco non vinceva il premio Strega (Acciaio, di Silvia Avallone, ora anche un film).
In Inghilte rra la cultura del carbone e dell’acciaio finì negli anni Ottanta. La signora Margaret Thatcher ci prese gusto a schiacciare sindacati e produzione, e per paradosso passò alla storia come la “lady di ferro”. Anche i laburisti si stancarono di quegli anacronistici minatori e sindacalisti, e così emerse Tony Blair, che sicuramente di ferro non era. Negli Stati Uniti, l’acciaio se ne andò piano piano, lasciando Pittsburgh arrugginita, Bruce Springsteen a cantarla e le Twin Towers in macerie. Il motivo era stato ben spiegato in un film del 1968, Il laureato, dove il giovane Dustin Hoffman, ammollo in piscina riceve la dritta fondamentale: «Figliolo, l’avvenire è nella plastica». Fu così davvero: la plastica, sempre più versatile e innovata, penetrò nelle automobili, negli elettrodomestici, nei tubi, nell’edilizia, mentre gli uomini d’acciaio diventavano troppo cari e troppo inquinanti. L’immagine del futuro è, pittoricamente, nella baia di San Franciso, con i suoi due ponti. Il Golden Gate, trionfo del ferro e del New Deal e il lunghissimo Bay Bridge, oggi in rifacimento, e il cui acciaio viene tutto dalla Cina. Unica consolazione per l’Occidente? Le avventure sadomaso della giovane protagonista delle Cinquanta sfumature di grigio: miss Anastasia Steel, che, saggiamente, l’acciaio del suo nome lo usa non per dominare il mondo, ma solo per certi innocui giochini.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password