BEIRUT Un Comitato per non dimenticare i palestinesi
Su uno dei teatri del massacro, oggi c’è un mercato, ricettacolo per vecchi e nuovi poteri
BEIRUT Un Comitato per non dimenticare i palestinesi
Su uno dei teatri del massacro, oggi c’è un mercato, ricettacolo per vecchi e nuovi poteri BEIRUT. Sono passati trent’anni da quei tragici giorni del 1982, quando Beirut era messa a ferro e fuoco da una guerra civile crudele e da una occupazione israeliana tanto illegale quanto sanguinaria. Trent’anni sono tanti, a volte sufficienti a veder passare due generazioni. Ma parlare di Sabra e Shatila ha ancora oggi un significato ricco di umanità e di attualità. Una umanità racchiusa negli occhi dei parenti delle vittime di quel terribile massacro. Quegli occhi chiedono giustizia, una giustizia che questi decenni hanno loro negato, costringendoli a vedere per le strade di Beirut, liberi e potenti, i protagonisti di quella violenza.
Sabra da allora non fu più ricostruita, al suo posto c’è un mercato, posto di macerie e disperazione, ricettacolo per i vecchi e nuovi poveri che la grande Beirut produce inesorabile a getto continuo. Poco lontano uno slargo, una specie di piccolo parco. Lì i militari israeliani buttarono i corpi delle vittime di quel massacro, nel tentativo di nasconderne l’esistenza al mondo. Proprio lì c’è un luogo della memoria: pochi simboli che ricordano quel crimine e i tanti che lo hanno seguito.
Shatila invece continua a esistere, dista da Sabra appena qualche centinaio di metri. A Shatila abitano circa 20mila persone, gran parte delle quali palestinesi, ma con il tempo altri poveri hanno occupato le case dei palestinesi rendendo ancora più caotica la vita nel campo. Le vie di Shatila sono strettissime. L’acqua è un bene preziosissimo come l’elettricità che va e viene con una logica che solo chi vive a Shatila conosce. Le fognature, vecchie e inadatte al numero degli abitanti del campo, sono insufficienti e quando piove riversano il loro maleodorante carico nelle viuzze strette e buie. In queste condizioni continuano a vivere famiglie palestinesi che di generazione in generazione si passano, come in una staffetta, la speranza di poter un giorno mettere fine a questa sofferenza per tornare alla loro terra, la Palestina.
Una umanità carica di dignità, consapevole del furto storico che da decenni avviene a scapito del loro futuro. La IV convenzione di Ginevra parla chiaro e obbliga le potenze occupanti a permettere il rientro delle popolazioni nelle loro proprietà. Ci sono poi tante risoluzioni dell’Onu che riconoscono il diritto al ritorno, a partire dalla risoluzione 198 del 1948. Una ingiustizia gigantesca che si regge sulla silente complicità di tutto il mondo, che non dice nulla e che si gira dall’altra parte quando si parla di rifugiati palestinesi.
Sta qui l’attualità di quell’eccidio avvenuto trent’anni fa. Giustizia per le vittime, ma anche giustizia per un popolo che da oltre 60 anni è costretto a vivere nei campi in situazioni miserrime. L’origine di tutto è nell’occupazione e nelle politiche sioniste, ma la situazione è aggravata dalle politiche poste in essere dai «fratelli» arabi. Il Libano da sempre considera i quasi 500mila palestinesi ospiti scomodi e a volte indesiderati, salvo poi cercare di arruolarli ora con uno ora con l’altro quando le vicende interne si complicano, come accade in questi giorni a causa della crisi siriana.
In questa situazione il massacro è ogni giorno più vivo e diventa simbolo dei diritti sottratti, dell’ingiustizia perpetuata nei decenni. Ricordarlo è così non solo un esercizio di pietà umana, ma soprattutto un atto di lotta. È la scelta di essere partigiani in favore di chi è depredato di tutto, a partire dal proprio futuro. Essere a Beirut in questi giorni è pertanto un atto di chiarezza politica, e forse proprio per questo a molti potrà non piacere, gli stessi che vorrebbero liquidare la questione palestinese a semplice crisi umanitaria.
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