Il dileggio di Romney verso il 47 per cento degli americani ha smascherato il vero volto della “superdestra” statunitense. Ecco il nuovo partito repubblicano. Miliardari che se ne infischiano della loro stessa base e pensano di poter scacciare Obama dalla Casa Bianca a suon di quattrini e spot
Il dileggio di Romney verso il 47 per cento degli americani ha smascherato il vero volto della “superdestra” statunitense. Ecco il nuovo partito repubblicano. Miliardari che se ne infischiano della loro stessa base e pensano di poter scacciare Obama dalla Casa Bianca a suon di quattrini e spot
NEW YORK. No, la superdestra che vuole spazzare via l’America di Barack Obama non si nasconde più nelle valli della Bible Belt, la superdestra d’America non si nasconde più nei villaggi dove di librerie non ne nascono perché tanto basta e avanza la Bibbia e al supermarket non puoi comprare un drink però sfoderi tutte le armi che vuoi. No, la superdestra che vuole riprendersi l’America non viaggia più sui pullman semiscassati dei Tea Party, non grida più la sua furiose dove i Dem finivano al muro, in quelle assemblee popolari che covavano la Rivoluzione all’incontrario. Dimenticate il folklore dei trinariciuti della destra estrema. Se volete scoprire dove si nasconde, oggi, la superdestra che a 50 giorni dal voto si sta giocando il tutto per tutto — a colpi di miliardi di dollari di finanziamenti — basta spingersi nel cuore della Grande Mela, attraversare il traffico di Times Square, puntare all’altezza della 47esima strada e infine, all’incrocio con l’Avenue pomposamente dedicata a tutte le “Americas”, alzare gli occhi fin lassù: fino agli uffici del Rockefeller Center ormai trasformati nel rifugio di “Fort Fox”. Sì, la superdestra si nasconde qui.
Tra i corridoi del New York Post dove nascono titoli come quello che campeggiava proprio ieri: «La verità fa male» — sotto, ovviamente, alla riproduzione del fatidico video che smaschera il dileggio di Mitt Romney verso il 47 per cento degli americani. «La verità fa male» dice il titolo doubleface — ma si capisce bene a chi ammicca: fa male a Romney o fa male, suggerisce il tabloid di Rupert Murdoch, a quell’altra metà di America ipocrita, che non vorrebbe appunto guardare in faccia alla realtà smascherata dal candidato miliardario? Eccola la superdestra senza vergogna, la superdestra pronta a cavalcare la gaffe che tutti i sondaggisti, giurano, affosserà le speranze del Grand Old Party, la superdestra dei fatti rigorosamente separati dalle opinioni: perché le seconde non siano influenzate dai primi.
La chiamano tutti “gaffe” non solo perché scoperta dal video galeotto. La chiamano tutti “gaffe” perché in quel 47 per cento c’è tanta, tantissima gente che era ed è ancora pronta a votare a destra. Lo dice Barack Obama, con una battuta, che 47 per cento, quattro anni fa, era proprio la quota di americani che votarono per John Mc-Cain. E lo dicono le statistiche che quel 47 per cento non paga le tasse sul reddito perché tre quarti paga comunque le tasse sullo stipendio: e il resto o sono pensionati o guadagnano meno di 20mila dollari all’anno. Per non parlare di quei 7mila milionari — come ricorda maliziosamente Roberton Williams del Tax Policy Center — che tra un trucchetto e un’agevolazione di troppo alla fine non pagano anche loro un bel niente.
Per carità: la corsa è ancora “too close to call” e le prossime estrazioni sulla ruota dei sondaggi possono cambiare tutto, anche se per i primi poll dopo il video un terzo degli indipendenti non lo voterà più. Ma la superdestra che rimette il doppiopetto dei miliardari alla Romney e dei suoi ricchissimi benefattori, come i fratelli Charles e David Koch, che su questa elezione hanno scommesso da soli mezzo miliardo di dollari, sembra aver ingranato la quarta per affrontare a tutta velocità, a proprio rischio e a nostro pericolo, ogni minima curva che ci separa da qui al 6 novembre: falciando nella corsa disperata tutti quei militanti che si erano messi umilmente in marcia, due anni fa, portando i repubblicani a riprendersi il Congresso con gli slogan, partiti dal basso, del Partito del Tè.
Oggi la superdestra se ne infischia della base e pensa davvero che sia solo una questione di quattrini e spot. Si mette le mani nei capelli persino Peggy Noonan, l’ex beniamina di Ronald Reagan, che affoga nel suo blog sul Wall Street Journal tutta la sua disperazione per il candidato miliardario: rimproverandogli la quasi certa «sconfitta repubblicana nell’anno in cui il candidato repubblicano non avrebbe potuto minimamente perdere». Oddio, si chiede Peggy, come si fa a dividere l’America in due e ammettere pure di non poter conquistare l’altra metà? «Non è così che i repubblicani vincono. Come fai a dire: “Io non posso conquistare questa gente”? Devi avere molto più rispetto, e anche molto più affetto, non puoi escludere, devi invitare tutti a starci. Nel 1984 Reagan spalancava le braccia: “Venite anche voi, unitevi, facciamo questo cammino insieme”».
Insieme? La superdestra che divide l’America in due, e pensa di riconquistare la Casa Bianca comprandone una metà, non sa lo scherzo che rischia di giocarle l’altra destra. Non c’è solo la vecchia guardia di Peggy e degli altri notabili che oggi si mangiano le mani e si chiedono perché hanno sbattuto lassù un miliardario sprovveduto invece di un usato sicuro, per esempio, come Jeb Bush. Kay e Ron Rivoli, la coppia di cantanti, marito e moglie, anima e animazione dei Tea Party Express, hanno inondato le email di decine di milioni di simpatizzanti: «Continuiamo a ricevere tantissime lettere di gente sconfortata: ma sono i media che vogliono scoraggiarci perché non vogliono portarci a votare! Invece c’è ancora speranza: e quella speranza si chiama Mitt Romney e Paul Ryan».
Sarà. Ma è proprio la disperazione dell’appello a tradire la disperazione della sfida. È la stessa disperazione che spinge a prendere computer e blog a Jenny Beth
Martin, la donna che dalla Georgia più profonda aveva lanciato i Tea Party Patriots, l’organizzazione che durante le primarie aveva acceso la stella dell’allora sconosciuto Rick Santorum. «Troppi sostenitori sono furiosi con il candidato repubblicano: dicono che non si batte per i nostri valori. Sono furiosi con la leadership al Congresso: senza spina dorsale. Però… «. Però? «Però non dobbiamo dimenticare che il nostro obiettivo resta mandare a casa Barack Obama ».
Ecco, la vecchia destra si tura il naso e si prepara a votare Mitt. Ma la superdestra che divide, invece di unire, è divisa persino al suo interno. Persino quel grande vecchio dei conservatori che è appunto SuperRupert Murdoch, e che con le 50 sfumature del caso ha schierato dietro Mitt e Paul la sua Foxe il suo Wall Street Journal, il suo
New York Post e le sue radio che in tutta l’America rilanciano gli urlatori di destra — i Rush Limbaugh, le Laura Ingraham — sì, perfino lui è costretto a difendere un candidato che non ama. Il vecchio Squalo, che nella notte più lunga, 12 anni fa, quando George W. Bush e John Kerry se la battevano in quell’altalena infinita, era così eccitato da finire — ricorda il biografo Michael Wolff — completamente ubriaco — perfino lui, oggi, ha cercato fino alla fine di allontanare dai repubblicani l’amaro calice di Mitt Romney: che adesso sta invece cercando di fare bere al resto d’America.
Sì, la superdestra che vuole cacciare dalla Casa Bianca il primo presidente nero è unita da un colore solo: quello dei soldi. I poveri sono poveri e quindi si arrangino, dice Mitt. E SuperRupert che quelle cose non le avrebbe dette mai si tura anche lui il naso: anche lui, il Grande Inquinatore. Dalla sua Londra lo stesso premier conservatore, David Cameron, si lasci scappare che «per amore della mia gente dovrei sostenere Barack Obama». Ma la superdestra avanza comunque, trasformando la sua debolezza in forza e le sue bugie in verità che i liberal di Media Matters sono costretti a smontare ogni giorno vivisezionandole sul web.
Come finirà? Non tutto è perduto, anzi. La superdestra potrebbe ancora, come suggerisce la saggia Peggy, rievocare il fantasma inclusivo di Ronald Reagan. Però poi sapete qual è l’ideologa di Paul Ryan, l’aspirante vice di Mitt, no? Ayn Rand, la scrittrice della Fonte meravigliosa diventata poi faro dei conservatori con quegli scritti dai titoli illuminanti, tipo La virtù dell’egoismo: roba che nella Bible Belt, un tempo, sarebbe finita direttamente al rogo.
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