Manconi: Grillo inquina il linguaggio politico

«Il Pci chiamava fascisti noi dei movimenti Ma Bersani ha fatto bene a definire lui così»

«Il Pci chiamava fascisti noi dei movimenti Ma Bersani ha fatto bene a definire lui così» ROMA — Luigi Manconi ricorda: «Era l’anno 1984 e Beppe Grillo faceva su Rai Uno “Te lo do io il Brasile”. Scrissi qualcosa già allora sulle sue “sottili tentazioni xenofobe”». Sull’immigrazione, dice Manconi, «Grillo e Di Pietro hanno detto recentemente cose da far rizzare i capelli in testa». Grillo ha evocato l’altro ieri gli anni di piombo, ha parlato di «due minuti di odio al giorno» nei suoi confronti. «Mi sembra l’antica favola del lupo che accusa l’agnello di inquinargli l’acqua, pur stando a valle. La fonte più recente di inquinamento del linguaggio pubblico e delle culture politiche è stata indubbiamente la semantica del “vaffa”, inaugurata da Grillo stesso». Grillo teme di diventare un bersaglio reale… «Non vedo in lui alcun tratto che lo renda simile a Guido Rossa o a Vittorio Bachelet».

Luigi Manconi, 64 anni, sociologo, docente universitario, parlamentare (Verdi e Ulivo) dal ’94 al 2001, sottosegretario alla Giustizia con Prodi dal 2006 al 2008. Dirigente di Lotta continua e militante dei movimenti degli anni 70. I dirigenti del Pci, in particolare dopo la cacciata di Lama dalla Sapienza, chiamarono quei ragazzi «diciannovisti» e «fascisti». Il segretario del Pd, Bersani, a fine agosto ha accusato Grillo di fare «considerazioni fasciste». Definizioni che ritornano… «Sono d’accordo con Bersani — risponde Manconi —. Nel discorso pubblico di Grillo si trovano tracce inequivocabili di “linguaggio fascista”. A utilizzare quel linguaggio non è necessariamente un fascista: possono farlo individui e gruppi che attingono a una retorica, a un sottofondo culturale la cui origine è quella fascista». Anche il Pci disse qualcosa del genere al movimento del ‘77. «Fui tra coloro che ricevettero dal Pci l’onta di quell’epiteto: “fascista”. Chi ne era bersaglio, cresciuto nel mito della Resistenza antifascista, pativa quell’insulto come sommamente ingiusto». Pensavate che tutto nascesse, comunque, nello stesso campo? «Sì. La sinistra che si voleva rivoluzionaria era, almeno nel migliore dei casi, una specie di “Fiom” e la critica al Pci era tutta concentrata su temi come le diseguaglianze sociali, la condizione operaia, lo stato delle periferie urbane, i diritti di libertà. Uno scontro classico tra estremismo e riformismo».
I militanti di Grillo e di Di Pietro non c’entrano con la sinistra? «Sarebbe sommamente ingiusto affastellare la varietà di posizioni e forme dell’ostilità antipolitica in un’unica categoria e qualificarla a partire dalle pulsioni violente (“fasciste”) che spesso esprime. Depurato di queste ultime, quell’atteggiamento evoca comunque tratti culturali e orientamenti politici che rimandano al campo della destra». Eterno quesito, Manconi: cosa è destra e cosa è sinistra? «Prendo, a mo’ di esempio, un titolo a tutta pagina del Fatto Quotidiano, giornale vicino alle posizioni di Grillo e Di Pietro, del 5 aprile scorso: “In un Paese di ladri”. La sacrosanta lotta alla corruzione diventa qualcosa di simile a una “visione del mondo”. Si manifesta, piuttosto, un’idea della società come un’unica macchina del malaffare, che annulla le persone e i percorsi di emancipazione collettiva. Simili letture nulla hanno a che vedere con un punto di vista e un metodo interpretativo qualificabili come di sinistra. Eppure, il direttore del Fatto, Antonio Padellaro, è uomo limpidamente di sinistra, per storia e cultura».
Su cosa si misura la grande frattura fra la sinistra e Grillo? «Non si tratta solo di lavoro e diseguaglianze sociali. C’è la questione del giustizialismo: se tutta la vita sociale viene vista attraverso la fattispecie penale è inevitabile che questa si porti appresso pensieri e invettive conseguenti. Se viviamo “in un Paese di ladri”, è inevitabile che il primo e principale slogan politico coincida col grido di Giorgio Bracardi: “In galera!”. Si diffonde una modalità di osservazione della politica, dell’economia, delle istituzioni attraverso il buco della serratura, formando così un’opinione pubblica convinta che la dimensione più sordida e oscura sia quella che domina l’intera collettività e tutte le relazioni interpersonali». Esempi? «Il problema dell’Ilva sembra essere solo quello delle sanzioni nei confronti dei proprietari e dei dirigenti, e non l’enorme questione dello sviluppo sostenibile. È il conflitto d’interesse del ministro Passera e non il destino della classe operaia ciò che viene posto al centro dell’attenzione. E così via».

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