«Quel giorno rimase impassibile tra le bombe a mano e i mitra»

 MILANO — «Me lo disse qualche giorno prima: “Verranno a consegnare delle armi”». Monsignor Paolo Cortesi, nel giugno del 1984 aveva 38 anni. Era uno dei segretari personali del cardinale Carlo Maria Martini, da quattro anni arcivescovo di Milano. «Non chiesi nulla, sapevo che era in contatto con alcuni cappellani delle carceri, aveva rapporti epistolari con molti detenuti, in particolare con i terroristi». La mattina del 13 giugno di quello stesso anno si presentò un giovane in Arcivescovado: «Aveva tre borse in mano, come quelle che si usano per le racchette da tennis. Avrà  avuto 25 anni. Non chiesi nulla. Lasciai che le appoggiasse sulla mia scrivania. Si voltò e sparì».

 MILANO — «Me lo disse qualche giorno prima: “Verranno a consegnare delle armi”». Monsignor Paolo Cortesi, nel giugno del 1984 aveva 38 anni. Era uno dei segretari personali del cardinale Carlo Maria Martini, da quattro anni arcivescovo di Milano. «Non chiesi nulla, sapevo che era in contatto con alcuni cappellani delle carceri, aveva rapporti epistolari con molti detenuti, in particolare con i terroristi». La mattina del 13 giugno di quello stesso anno si presentò un giovane in Arcivescovado: «Aveva tre borse in mano, come quelle che si usano per le racchette da tennis. Avrà  avuto 25 anni. Non chiesi nulla. Lasciai che le appoggiasse sulla mia scrivania. Si voltò e sparì».
Il nome di quel ragazzo non è mai stato scoperto. «Presi quelle tre borse — racconta monsignor Cortesi —, e le portai in uno studio che allora era poco utilizzato. Poi ricordo di aver aperto le borse. Vidi mitra e bombe a mano. Non toccai niente e raggiunsi il cardinale che in quel momento era in udienza. Gli dissi che c’erano le armi. Non si scompose: “Chiamate la Digos, ci penseranno loro”. Un ispettore venne a interrogarmi». Carlo Maria Martini affidò quest’episodio al silenzio. Ne ha parlato solo lo scorso anno con il giornalista Carlo Maria Valli nel libro Storia di un uomo: «Quando portarono le borse con le armi — disse il cardinale — chiamai il prefetto. Arrivò e io dissi: bene, apriamo le borse. Lui restò inorridito ed esclamò: per carità, non tocchiamo niente! Una situazione curiosa. Temo che un po’ di paura l’ebbe invece il mio segretario di allora». Le cose non andarono esattamente così. «Ma è vero che l’arcivescovo a differenza di altri non sembrava turbato da quella strana consegna — ricorda il suo segretario, oggi al servizio della parrocchia milanese di Santa Maria alla Porta —. Un funzionario della Digos portò via le borse, poi arrivarono in Curia il prefetto Enzo Vicari e il procuratore Mauro Gresti. Parlarono in privato con il cardinale. La notizia non venne diffusa».
Solo qualche giorno dopo, il 21 giugno, durante un’udienza del processo ad alcuni membri di Prima linea e dei Comitati comunisti rivoluzionari l’episodio emerse con chiarezza. Nelle borse, come riporta il verbale di sequestro della Digos, «due mitragliatori Ak 47 Kalashnikov con relativi caricatori e 1.240 proiettili; un fucile mitragliatore Beretta; un moschetto automatico: tre pistole, quattro bombe a mano e un razzo per bazooka». Quelle armi erano l’arsenale dei Co.co.ri e il tramite della «trattativa» con l’arcivescovo venne subito individuato in Ernesto Balducchi.
Il 27 maggio, dal carcere di San Vittore, il terrorista aveva inviato una lettera al cardinale Martini: «Apprezziamo la vostra riflessione sulla fraternità, la vostra apertura al dialogo». Balducchi, che oggi gestisce un’impresa di consegne espresse, ha ricordato l’episodio ieri a Radio Vaticana: «Avevamo già maturato un giudizio negativo sull’esperienza della lotta armata, ma ci trovavamo di fronte un muro abbastanza compatto che non era disponibile a qualsiasi forma di dialogo. Martini si era presentato a San Vittore nel Natale dell’83 e ci ha confortato». Balducchi scrisse una lettera al cardinale. «Mi rispose, non me l’aspettavo. E a quel punto ho incominciato a mettere a fuoco quello che avrebbe potuto essere un dialogo anche concreto». Ma l’arcivescovo Martini non ebbe contatti solo con l’ex militante dei Co.co.ri, come ricorda monsignor Cortesi: «Aveva già conosciuto il mondo carcerario grazie a padre Virginio Spicacci, anche lui gesuita, cappellano del penitenziario minorile di Nisida (Napoli). Durante le visite a San Vittore e Opera parlava con i detenuti, li stimolava alla conversione». Fece discutere, invece, la decisione di celebrare il matrimonio di Marco Barbone, ex terrorista della Brigata XXVIII Marzo e killer pentito dell’inviato del Corriere della Sera Walter Tobagi.
Nel 1980 una banda di rapinatori prese in ostaggio 18 persone al Banco di Roma di piazza Cordusio. Martini si presentò alla polizia e chiese, inutilmente, di incontrare i malviventi. Con Pietro Cavallero, il bandito che negli anni Sessanta «uccideva ridendo» come lo descrisse Fabio Mantica sul Corriere, Martini strinse un legame autentico. Durante la detenzione Cavallero si convertì, decise di chiedere perdono alla città. Prima di morire scrisse una lettera all’arcivescovo: «È a Milano, turbato, ferito e scosso, che devo soprattutto chiedere perdono, da penitente, in silenzio».

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