Così il candidato cavalca la polarizzazione economica e culturale
Così il candidato cavalca la polarizzazione economica e culturale
WASHINGTON. Ha un cuore antico, la nuova destra americana che si è finalmente rivelata nelle parole di Mitt Romney. Sta, come il “Great Divide” delle Montagne Rocciose, nello spartiacque che separa l’America del New Deal dall’America del “Neo Darwinismo”, fra coloro che credono alla responsabilità collettiva verso chi non ha, da coloro che vogliono la sopravvivenza del più forte. Destra e sinistra, oggi come ieri, più separate che mai. Romney lo sa e gioca la carta del «noi» contro «loro». Potrebbe, eccitando la polarizzazione culturale ed economica dell’America di oggi, funzionare meglio delle blande banalità che va ripetendo in pubblico. Ma finalmente la sostanza è uscita dal quel vestito vuoto che finora Romney era sembrato.
Il suo merito è di avere illuminato ancora una volta il fatto che anche questa del 2012 è una scelta politica fondamentale tra due concezioni diverse, e opposte, di vedere la società e il ruolo del governo. Una scelta che da ormai ottant’anni, da quando Franklin Roosevelt creò il “New Deal” per ripescare una nazione devastata dall’abisso creato, anche allora, da un’Amministrazione repubblicana, si ripropone.
Il filo che lega il rancore della Destra di oggi ai personaggi che accusarono FDR di essere un “dittatore comuni-sta”, gente come William Randolph Hearts il “Cittadino Kane”, il grande giornalista Walter Lippman, il patriarca della famiglia Kennedy, Joseph, è sempre lo stesso. Vecchia destra e nuova destra, milionari dell’editoria e fedeli salmodianti convengono sul punto centrale della visione conservatrice — noi diremmo liberista o neoliberista — dell’America, racchiuso nella famosa frase di Ronald Reagan: «Il governo non è la soluzione dei problemi, il governo è il problema». È la mano pubblica quella che ci impedisce di rincorrere e acciuffare il “sogno americano”. La ricerca della felicità, non dell’assistenza sanitaria. In una nazione che seppe risparmiarsi le catastrofi del Socialismo Reale e del Nazifascismo nel secolo scorso, la divisione che separa due mondi non si è mai coagulata in ideologie e quindi in organizzazioni contrapposte. Le distinzioni, sulla superficie, sono stato spesso fluide e adattate ai momenti diversi della storia. Richard Nixon, campione della “maggioranza silenziosa”, fu un presidente assai più vicino al “New Deal” di quanto fu Bill Clinton, che era andato al potere promettendo di «demolire il welfare state come lo abbiamo ereditato». Jimmy Carter, democratico, lanciò l’onda di liberalizzazioni con la “deregulation” delle compagnie aeree. Bush il Vecchio aumentò le tasse e suo figlio, che aveva accarezzato l’idea della privatizzazione delle pensioni pubbliche, creò il meccanismo di sovvenzioni per i medicinali che ha allargato la voragine del debito pubblico.
Ma se la differenza fra le promesse elettorale e le azioni di governo rispondono all’immortale verità del re di Prussia Federico il Grande quando disse che «nessun piano di battaglia sopravvive al primo contatto con il nemico» la separazione di principio fra destra e sinistra esiste e si inasprisce. Ogni decennio conosce una “nuova sinistra” (i “new Democrats” di Clinton) e una “nuova destra”. Nuovo, e addirittura rivoluzionario negli Anni ’60, fu quel Barry Goldwater, nato Goldwasser prima di cambiarsi il cognome ebreo in qualcosa di più accettabile nella sua Arizona, che inventò uno slogan divenuto “gospel” per i suoi discepoli, «l’estremismo nella difesa della libertà è una virtù» era fieramente anticlericale.
Ma Goldwater odiava quei ciarlatani del Vangelo che cominciavano a infestare il Sud e il West degli Stati Uniti, e che, alla guida della “destra cristiana”, si sarebbero lentamente impadroniti del partito repubblicano, condizionandolo con almeno 30 milioni. Fu negli Anni ’70 e soprattutto ’80 che i conservatori antistatalisti, ma laici, si trovarono immischiati con i reazionari della jihad cristiana. Con i telepredicatori alla Jerry Falwell e Pat Robertson (lui stesso candidato poi battuto) che avevano creato una miscela di odio per un governo che stava insieme tassando troppo, imponendo la disgregazione razziale nel Sud, e distruggendo la “fibra morale” della nazione con l’aborto, l’accettazione dell’omosessua-lità, il femminismo, la promiscuità sessuale.
Il cocktail di più Vangelo e meno tasse è stato, per una generazione, il carburante che ha alimentato il partito repubblicano fino alla vittoria di George W. Bush, il primo presidente che avesse usato sfacciatamente la Bibbia come una piattaforma elettorale. Bush sembrò riassumere in sé tutti i pezzi sparsi, tutte la minoranze contraddittorie che compongono il partito repubblicano: i milionari da Country Club e le madri bianche e single del Sud aggrappate alla fede come ultimo rifugio di un fallimento esistenziale, gli operai patriottici e laboriosi indignati contro i “mantenuti” dalla mano pubblica e i pensionati della Florida.
Ma anche Bush ha governato seguendo la stessa strada dell’assistenza pubblica che avrebbe dovuto chiudere, mentre permetteva e incoraggiava le acrobazie della finanza che distrussero il mito del mercato che si autoregola e si autobilancia, sfasciando ogni sogno. Nacque allora, come conato violento di antipolitica, il movimento del “Tea Party”. Ed è stata la destra, non la sinistra ancora impigliata nel velleitarismo da “Occupy Wall Street”, a raccogliere l’urto dell’antipotere. E a trovare nell’“alieno” Obama, nel suo essere nero, forse mussulmano, certamente neo stalinista, probabilmente neppure nativo americano, il bersaglio simbolico della propria collera per “l’esproprio” dell’America.
È a essa che oggi Mitt Romney si appella. Con quella dichiarazione “rubata”, ha riscoperto quell’arma che proprio la destra continuamente rimprovera alla sinistra: il richiamo alla lotta di classe. Ha detto con chiarezza che lui rappresenta mezza America, quella dei “maker” contro i “taker”, quella che inventa, produce, crea ricchezza contrapposta alla metà immaginaria di parassiti irresponsabili sorretti dalla rete di sicurezza pubblica.
Noi contro loro, noi che «guidiamo un paio di Cadillac», come Romney ha detto della moglie Ann, lanciati nell’ultima Armageddon secondo le allucinazione di Ayn Rand, la scrittrice russa divenuta idolo dei neo conservatori, per salvare la nazione dall’inesorabile scivolamento verso il modello di welfare europeo. «Finalmente» hanno gridato i cantori della nuova lotta di classe, come Rush Limbaugh alla sua radio o come gli agit-prop della Fox News di Rupert Murdoch, questa è la strada maestra da seguire per raggiungere la Casa Bianca e costruire quella nazione dove chi ha, ha. E chi non ha pane, ha scritto Maureen Dowd sul New York Times, «mangi tortine di polpa di granchio».
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