La parola «decrescita»

Chissà  se i colleghi giornalisti la smetteranno di adoperare il termine «decrescita» come sinonimo di «recessione». Ne dubito. Perché la Conferenza internazionale sulla decrescita – a Venezia fino al 23 settembre – dirà  in molte lingue, con argomenti fondati, con prove scientifiche e idee innovative, una cosa talmente fuori dell’ordinario, che al più i colleghi giornalisti penseranno a una stravaganza. Magari carina, ma irrimediabilmente fuori del mondo. Magari ha ragione chi dice che la parola «decrescita» è fuorviante ed è anche un tantino depressiva.

Chissà  se i colleghi giornalisti la smetteranno di adoperare il termine «decrescita» come sinonimo di «recessione». Ne dubito. Perché la Conferenza internazionale sulla decrescita – a Venezia fino al 23 settembre – dirà  in molte lingue, con argomenti fondati, con prove scientifiche e idee innovative, una cosa talmente fuori dell’ordinario, che al più i colleghi giornalisti penseranno a una stravaganza. Magari carina, ma irrimediabilmente fuori del mondo. Magari ha ragione chi dice che la parola «decrescita» è fuorviante ed è anche un tantino depressiva. Forse si potrebbe spiazzare tutti, alla maniera dei situazionisti del Sessantotto, inventando e facendo circolare un altro termine, come fanno, però sulla base di una cultura di secoli, i popoli originari dell’America latina: «Buen vivir», dicono semplicemente. I simboli, si sa, nascono all’improvviso e producono un contagio, come il «99 per cento» degli «occupy» statunitensi. Eppure, «decrescita» è una parola con una storia lunga, da Georgescu-Roegen e Gorz, fino a Latouche, ed ha corrispettivi in molte lingue: «degrowth», «décroissance», «decrecimiento». E infatti la Conferenza di Venezia è planetaria.
Fin qui, attorno alla decrescita è nato sì un interesse attivo da parte di gruppi sparsi ovunque – parlo del nostro paese – che, oltre ad auto-acculturarsi, si danno da fare in una infinità di progetti sull’autoproduzione, il recupero delle colture spazzate via dall’agro-industria, la distribuzione a chilometro zero, l’auto-produzione, le banche del tempo e le monete locali, la cooperazione in ogni sua forma, il risparmio e il riciclo, provocano un boom nella vendita di biciclette e così via, come testimoniano i 650 iscritti (paganti) alla Conferenza. Ma, allo stesso tempo, non solo i media o i coristi del liberismo o i politici replicanti, ma sinistre e movimenti vari hanno guardato con sospetto, talvolta avversato, qualcosa che contraddice le credenze più solide e antiche dei movimenti anti-sistema del Novecento. Qualcosa che, per di più, sembra mettere in dubbio le «lotte». Prendiamo la Fiat: Marchionne ha imposto un codice di fabbrica dittatoriale, discriminato i dissidenti, ricattato l’intero paese, e poi cambia idea (anche se ora un po’ smentisce). E d’altra parte il «governo tecnico» non ha letteralmente nessuna obiezione da fare: un imprenditore fa quel che vuole e dove vuole, è questa la premessa (articolo di fede) di una economia sana. Quindi, si lotta perché la Fiat non chiuda, non delocalizzi, oltre a non vessare sadicamente gli operai con turni da lager. Bene. Ma da molti anni tutti sapevamo come l’automobile fosse un prodotto non più sopportabile, fatto di cui l’attuale crollo delle vendite è solo un rivelatore in condizioni drammatiche: la crisi e l’impoverimento generalizzato. «Decrescita», sull’auto, non significa andare tutti a piedi festeggiando la chiusura delle fabbriche, ma mettere al lavoro cittadini e lavoratori perché escogitino, con le tecnologie più raffinate e insieme con una nuova responsabilità collettiva, una mobilità del tutto differente (su cui Guido Viale ha scritto libri fondamentali). Certo non è facile, ma prima si comincia e meglio è.

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