In fuga dall’eterno presente della merce

ZERO HISTORY Dall’attitudine cyberpunk alle reti sociali del capitalismo globale

ZERO HISTORY Dall’attitudine cyberpunk alle reti sociali del capitalismo globale

Un lungo piano sequenza sulla metropoli-fabbrica. Terzo capitolo dell’allegoria costruita da William Gibson sulle multinazionali dello stile Nessuna realtà virtuale; nessuna incursione onirica nel futuro prossimo venturo; nessuna concessione alle suggestioni woodo dei primi romanzi. In Zero History William Gibson si misura infatti con l’eterno presente dell’economia del brand, meglio del capitalismo cognitivo. Già dal titolo emerge la politicità di questo romanzo. Zero History è un’espressione ambivalente. Può essere usata per indicare l’assenza di storia, ma anche un presente senza storia. In entrambi i casi, c’è possibilità di trasformare la realtà, ma anche di garantire la continuità dello status quo. In fondo, è questa la caratteristica che ha un logo: adesione a uno stile di vita, ma anche condivisione di una visione della realtà altera a quella dominante che non cerca legittimazione nella sua storia, ma nel potere simbolico del logo.
Un potere già evidenziato dai gruppi di subvertising al tramonto del Novecento, che hanno teorizzato l’interruzione della sequenza che parte dalla cultura di strada e giunge all’innovazione di prodotto attraverso un meccanismo di politicizzazione di ciò che è immanente al logo, cioè quella cultura di strada che nasce come identità immaginata delle classi subalterne. Una pratica teorica che aveva colto nel segno, senza riuscire tuttavia a interrompere quella sequenza, neppure nelle esperienze più avanzate del «NoLogo», che hanno semmai reso più appetibili i prodotti e le forme espressive che si sviluppano dentro la metropoli all’interno di processi di politicizzazione diffusa del «fare società». Fare i conti con l’ambivalenza del logo significa dunque guardare negli occhi di medusa – la produzione di merci contemporanea – senza rimanerne pietrificati.
Gibson ha da sempre guardato con attenzione, e ossessione, la dinamica sociale attivata dall’«economia del logo», al punto di dedicargli una intera trilogia, che inizia con Pattern Recognition, continua con Spook Country e che ha come ultimo appuntamento con questo romanzo, anche se il finale lascia intravedere che il burattino che tira le fila, Bigend, ha avuto nuovamente la capacità di intravedere quale sarà il prossimo laboratorio sociale e politico della valorizzazione capitalista delle forme di vita che abitano la società globale. Gibson non si propone ovviamente di dare indicazioni politiche. La sua narrativa si limita ad evidenziare tendenze presenti nella produzione di immaginario, indifferente quindi alla tentazione consolatoria di vedere nella rivolta l’atto catartico che mette finalmente ordine nel caos della produzione capitalistica. La sua è un’attitudine da etnografo della contemporaneità, non di scrittore militante.
Il logo dunque come assenza di storia, riproduzione senza smagliature del presente condannano però il capitalismo alla stagnazione. La ricerca si concentra dunque alle frontiere tra produzione standardizzata e irruzione dell’innovazione prodotta dalla cultura di strada. In Zero History la frontiera è costiutita da jeans che evocano l’antico lavoro operaio, ma anche un abbigliamento militare che al tempo stesso confonde e distingue il combattente dalla popolazione civile. Bigend non è infatti interessato a riprodurre semplicemente i jeans, bensì ad acquisire il processo ideativo che hanno portato alla loro produzione. La posta in gioco sono quindi le differenze che devono intervenire affinché non ci sia la ripetizione dell’eterno presente.
I mezzi a disposizione di Bigend sono molti. Un efficiente settore ricerca e sviluppo; una mappa aggiornata in tempo reale dei flussi di consumo, un ingente capitale di rischio che può finanziare progetti di ricerca che non hanno approdi produttivi immediati; un uso sofisticato degli strumenti più spericolati della finanza. Intrattiene rapporti anche con il potente complesso militar-industriale – il Pentagono -, ma è indifferente all’esercizio della sovranità fatta dagli stati nazionali. Lo stato può contrastare i suoi piani, ma non può impedire la sua libertà di movimento. È protagonista di un capitale globale indifferente al territorio, ma sensibile a quanto accade nella cooperazione sociale, perché è consapevole che la dicotomia tra hardware e software privilegia la dimensione immateriale della produzione di merci. E non è un caso che tutta la vicenda si svolga a Londra, esempio di una città globale che funzione come nodo di smistamento dei flussi di capitale, di conoscenze dove i laboratori industriali presenti sono funzionali solo alla produzione di prototipi che verranno poi standardizzati e massificati all’interno di una rete altrettanto globale di sweetshop.
In Zero History l’andamento delle vicende narrate ha il ritmo lento dei piani sequenza che devono cogliere i mille particolari: degli oggetti, del gioco di luci e ombre di una metropoli dove il passaggio dal giorno alla notte è percepito solo ai suoi margini o nelle zone dismesse, punteggiate dai resti urbani che ricordano più le rovine dell’antichità che non le manifatture della rivoluzione industriale. Sono però quei particolari che possono fare la differenza e consentire di sfuggire a una vita senza qualità. Anche ai personaggi che popolano le cinquecentoquarantotto pagine non accade nulla di significativo. I «consulenti a progetto» della Blue Ant sono stati depredati della loro storia personale, una cancellazione che diventa un potente strumento di controllo sulle loro attuali e ordinarie vite. Alcuni hanno conosciuto l’effimero successo di una band musicale; altri hanno il fiuto di riconoscere lo stile di una impresa di abbigliamento a partire da un insignificante particlare. Sono cioè l’esempio di come le droghe chimiche possano aiutare sì allargare la coscienza, ma in una prospettiva reificata.
William Gibson ama dunque assemblare in maniera disordinata elementi della cultura popolare anche quando presentano aspetti di critica dell’esistente, perché è il capitalismo contemporaneo ad essere disordinato. Compie cioè quella continua rivoluzione dei rapporti sociali senza avere un «piano» prestabilito. Flirtra con il pastiche postmoderno, senza proporre nessuna volontà ordinatrice. Induge, infatti, in forme spregiudicate di governance dei rapporti sociali e dei momenti di espropriazione. Opera per rinnovare continuamente il momento dell’accumulazione originaria, riproponendo così il momento violento dell’espropriazione, in passato delle terre comuni, nel presente della conoscenza sans phrase. Mette al lavoro uomini e donne padroni dei loro mezzi di produzione – i variegati dispositivi tecnologici per restare connessi ai flussi di conoscenza- , ma definisce i criteri per regolarne gli accessi, elaborando al tempo stesso software adeguati per controllare le operazioni svolte con computer, smartphone e tablet.
I romanzi di William Gibson vanno dunque letti anche come il taccuino di un etnografo, o di un antropologo, che invece di trovarsi in un continente sconosciuto, si propone di analizzare la realtà dove vive. Ma allo scrittore statunitense, tuttavia, non vanno addossate altre responsabilità. Gibson non è infatti interessato alla critica dell’economia politica, né a sviluppare teorie politiche che puntino al superamento del capitalismo. Dopo aver acquisito, durante la fase cyberpunk, che la distinzione tra naturale e artificale è venuta meno, è interessato a definire i processi di elaborazione di adattamento individuale a una realtà magmatica, liquida direbbe Zygmunt Bauman. In Zero History parte dalla freccia spezzata del tempo, dove non c’è passato, ma neppure futuro per scoprire che tale condizione non è prerogativa di pochi drop out, bensì è una condizione generalizzata. È in questo processo sociale che il pastiche del capitalismo contemporaneo acquisisce senso agli occhi di Gibson. Una «rivelazione» che consente a Bigend, figura paradigmatica del capitalista contemporaneo, di lasciare al suo destino la città globale per avventurarsi nell’isola che c’è, distopia di un laboratorio della produzione «aperta» di software e conoscenza. Un porto franco per le esperienze di mediattivismo, di gestione condivisa del sapere, di social network «aperti. Esperienze di resistenza, ma anche produttori di quella differenza che, una volta «catturata», consente al capitale la condanna alla riproduzione di un presente sempre eguale a se stesso. E dunque via di fuga, per il capitale, dalla sua stagnazione.

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