Il martirio dei fratelli Cervi fuori dal mito

Dubbi irrisolti su una tragedia contadina 

Dubbi irrisolti su una tragedia contadina 

Nei cascinali della bassa padana, durante la Seconda guerra mondiale, sono successe più cose di quante le filosofie politiche del Novecento potessero immaginare. In un caso, quello dei fratelli Cervi, si è arrivati alla dimensione della tragedia classica, anzi del mito, con quella strage di sette fratelli partigiani, tutti i figli di una famiglia contadina, fucilati dai fascisti dopo essere stati circondati e catturati armi in pugno. Qui entra audace Dario Fertilio, con un’opera che è un cocktail fra ricerca documentaria e romanzo. Audace perché va contro il mito. Che fu — e in buona parte ancora è — fortissimo: costruito dal Pci nei primi anni Cinquanta, anche grazie alla mano sapiente di Italo Calvino, attorno all’immagine di una esemplare famiglia martire di comunisti, e alla figura del padre sopravvissuto, Alcide (quello che, con un imperdonabile strafalcione, Silvio Berlusconi disse avrebbe avuto piacere di conoscere, decenni dopo che era morto), sotto la cui firma uscì I miei sette figli, il libro decisivo per la mitizzazione, in realtà steso assieme a Renato Nicolai.
Contro un mito si può andare solo con un «giallo», e così è definito nel sottotitolo il libro di Fertilio in uscita oggi, L’ultima notte dei fratelli Cervi (Marsilio, pp. 254, 17), che introduce nella vicenda un protagonista di fantasia, un altro contadino della zona, giovane, ingenuo ed entusiasta, appena reclutato nei Gap, le formazioni partigiane votate agli attentati. Col nome di battaglia Archimede, si trova a vivere prologo e retroscena del massacro, in un lento viaggio di educazione politica e umana. Fra belle pagine di descrizione della vita dura nelle campagne emiliane in guerra, si scopre un disegno maligno, manovrato proprio dai compagni, che ha portato inesorabilmente i fratelli al sacrificio.
Ora, diversi studiosi hanno da tempo sottolineato la eterogeneità del gruppo dei Cervi rispetto alle formazioni comuniste della zona, tanto da mettere in dubbio la possibilità di identificarli con questa posizione politica. È significativo, del resto, che l’eccidio, pur così clamoroso, non divenne immediatamente oggetto di propaganda: poche notizie sui giornali clandestini e una sola, piccola, formazione partigiana intitolata ai fratelli.
Il romanzo di Fertilio va oltre: la tragica fine del gruppo non dipende tanto dall’isolamento rispetto ad altri settori della Resistenza quanto da una vera e propria manovra delatoria, decisa ad alto livello per eliminare chi non si voleva adeguare agli ordini del Pci. E qui sui documenti si innesta un lavoro su ipotesi e scenari possibili: doppi giochi, figure ambigue capaci di muoversi agevolmente nelle forze armate fasciste come nei comandi della Resistenza, esecutori spietati che sapranno sopravvivere in ogni situazione.
Archimede, l’io narrante, è un Raskolnikov mancato sotto diversi aspetti: dapprima, mancato come esecutore gappista, e a più riprese; poi mancato come temerario testimone contro l’artefice del complotto comunista che ha messo i sette fratelli in mano ai carnefici fascisti. Non è detto che queste carenze siano un difetto, si capisce fra le righe di Fertilio. Semmai, un modo per sfuggire alla zona grigio tenebra di quelle terre, dove guerra di liberazione e civile, ideologica e di classe si mescolarono, con l’aggiunta indecifrabile delle più torbide pulsioni private: il pozzo nero affrontato con coraggio in queste pagine.
Ma c’è un ulteriore problema, sfiorato da Fertilio. I miei sette figli — diffuso nel 1955 e ristampato fin quasi a un milione di copie dagli Editori Riuniti, di recente riedito da Einaudi — fu rivisto e corretto nelle edizioni successive al 1971 (Eva Lucenti ha analizzato la vicenda per gli «Annali dell’Istituto Alcide Cervi»), sfumando la caratterizzazione politica troppo netta dei fratelli (trasformati da comunisti in più generici antifascisti) e cancellando quasi del tutto l’esaltazione del modello sovietico a favore della tradizione socialista nazionale, in modo da creare un’immagine più consona alla linea politica del partito in quel periodo. E, almeno per questa operazione postuma, le prove della manipolazione sono assolutamente certificate.

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