È possibile il perdono?

Dopo l’isolamento, il ritorno di Kim-Ki-duk con «Pietà »

Il film, che uscirà  in Italia il 14 settembre, è una parabola sul capitalismo. Combatte i cliché anche il cinema di Sylvain George

Dopo l’isolamento, il ritorno di Kim-Ki-duk con «Pietà »

Il film, che uscirà  in Italia il 14 settembre, è una parabola sul capitalismo. Combatte i cliché anche il cinema di Sylvain George VENEZIA. Pietà è la Pietà di Michelangelo di cui Kim Ki-duk prova a restituire non solo il «profilo», l’immagine universalemte nota, ma soprattutto l’essenza profonda, quel significato di «pietas», di perdono doloroso tanto più prezioso quando appare impossibile. Del regista coreano che per anni ha incarnato la punta della nuova onda del cinema del suo paese (Primavera, estate, autunno, inverno e … ancora primavera, La Samaritana, Ferro 3), coccolatissimo dalla critica internazionale e dai festival più importanti (Ferro 3 vinse il premio per la migliore regia a Venezia nel 2004) era rimasta negli occhi la sua sagoma scarmigliata in quello che sembrava il suo ultimo film, Arirang: un grido lacerato, in prima persona, di rinuncia al cinema, e perciò al mondo, nella consapevolezza di un’impotenza di fronte al senso profondo della propria arte.
Il trauma sul set di Dream, quando la sua attrice era quasi morta, aveva spinto Kim Ki-duk all’isolamento tra le montagne dove viveva come un eremita, nella fantasmagoria dei propri universi.
Arirang è un film molto forte nella sua disperazione, e soprattutto nel modo quasi spietato in cui guarda dentro al fare-cinema senza concessioni. Forse è anche per questo che dopo una promessa di abbandonare il cinema per sempre, o almeno di cercarne diverse declinazioni, il ritorno del regista era in sé un evento.
Kim Ki-duk parla di Pietà come di un film con una storia «più riconoscibile»: «L’ho realizzata con il proposito che fosse per le masse», e certo in questa parabola sul capitalismo che nelle sue diverse forme mantiene immutato il proprio funzionamento, possiamo leggere anche una riflessione sul mercato cinematografico, e più in genere sulla produzione culturale, di un’arte che per essere indipendente è costretta allo scontro e a subire ricatti e minacce violentissimi. Al tempo stesso, Pietà è anche la dichiarazione intima del regista, ciò che per lui è stato il percorso di una «redenzione» rispetto alle accuse che gli sono state fatte ai tempi di Dream, un vero e proprio linciaggio morale. Ma la cifra poetica di Kim Ki-duk, che è la grandezza delle sue immagini, è proprio in questa capacità di lasciare aperto l’orizzonte narrativo delle sue storie.
Il film (in gara) – che in Italia uscirà il 14 settembre – si concentra su due personaggi: un uomo e una donna. Lui lavora per un usuraio, riscuote i debiti senza alcun rimorso. Lei che un giorno entra nella sua vita, è la madre che lo ha abbandonato, e gli chiede la pietà del perdono. Tra i due la relazione diviene, dopo un primo rifiuto, sempre più profonda. L’uomo si allontana dal suo sporco lavoro, e prova a ricominciare. Finché un giorno la madre non scompare…
I soldi. La compassione. La redenzione. Il perdono. Se il motore «mostruoso» è il denaro, come è possibile qualsiasi perdono? Nonostante le premesse, ritroviamo i luoghi cinematografici del regista, nei quali questo tema «universale» cerca una corrispondenza filmica che forse non sempre riesce a trovare. È come se, a prescindere dai momenti sublimi che il tocco di Kim-Ki-duk riesce sempre a liberare nelle sue immagini, la violenza e la tensione girino un po’ a vuoto, rifugiandosi in (auto) riferimenti visivi e narrativi già sperimentati, e perciò più rassicuranti e solidi, di impatto, seduzione, ma senza la potenza dei film passati.
A pochi giorni dalla fine della Mostra, quando si comincia già a scommettere sui Leoni d’oro (e Pietà è entrato subito tra questi), un primo dato è evidente: la Mostra presenta un cinema che guarda molto a ciò che accade, al mondo presente, alla Storia, e al cinema stesso, ai suoi meccanismi di narrazione, alla natura delle immagini, al conflitto e alle contraddizioni.
E però la selezione 2012 ha lasciato fuori campo quel cinema «sperimentale» (definizione riduttiva comunque), di cross over, altro come lo vogliamo chiamare che in questo momento rappresenta un riferimento importante teorico e di lavoro. Con magnifiche sorprese, vedi L’intervallo (di cui si parla qui accanto), esordio nella «finzione» di Leonardo Di Costanzo, finora tra i film più belli visti al Lido, il migliore italiano senza dubbio.
Sylvain George è regista che ha messo al centro della sua poetica un corpo a corpo costante con la realtà. Questo non significa però un cinema che è «fermo» al suo soggetto, al contrario la realtà è, nel suo lavoro (Qu’ils reposent en revolte; Les Eclats) una spinta incessante alla reinvenzione.
È la dicotomia dell’Après Mai di Olivier Assayas, tra chi pensa al cinema politico come una registrazione del mondo, e chi invece vede la politica nel gesto artistico il più possibile destabilizzante, col quale capovologere ogni ordine sensoriale e emozionale, il Maggio cioè… Ed è sull’immaginario che lavora il suo film, e da lì prende libertà…
La realtà di Sylvain George si manifesta proprio in questo spiazzamento anche laddove pensiamo di essere «abituati», come le immagini dei migranti o le manifestazioni cui siamo abituati. Vers Madrid, che come tiene a dire il regista è un «work in progress», ha inaugurato il Cinema Corsaro, proiezioni coraggiose all’aperto con un pubblico fitto. George filma gli indignados, provando a interrogare le diverse declinazioni di questo movimento, e anche i suoi paradossi.
Un film «politico», e non per il suo tema, è anche Kuf (Muffa) opera prima di Ali Aydin – in Italia lo distribuirà Nanni Moretti – tra i migliori titoli della Settimana della Critica, sezione che quest’anno mostra una qualità molto alta. Si parla dei massacri contro i curdi in Turchia, anche se il riferimento è fino alla fine fuoricampo. Kuf è costruito come un thriller tutto maschile, sul filo di geometrie di relazioni impalpabili, eppure estremamente nette. Il protagonista lavora per le ferrovie, cura i binari. Da diciotto anni invia alle autorità una lettera in cui chiede notizie sul figlio scomparso. Vuole sapere cosa è accaduto, almeno recuperare il corpo. Sul lavoro c’è un collega sbruffone e cattivo che lo prende in giro. L’uomo lo sorprende mentre fa del male a una donna e lo picchia. Al commissariato c’è un nuovo responsabile (è l’attore Muhammed Uzamer, tra i protagonisti di Viaggio in Anatolia di Bilge Ceylan) e, a differenza dei precedenti, non lo porta in cantina quando lo arresta…
Kuf rende nella sua trama di relazioni, dure, violente, soffocanti, il peso della repressione e di un rimosso che si consuma al presente. Costruito in una dimensione quasi fuori dal tempo, su una trama di sguardi, silenzi, sottintesi, il film racconta in modo potente una realtà, e la sua natura profonda, senza gridare, con la forza del cinema.

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