VELEGGIANDO PRIMA CHE LA TERRA TREMI

Alla scoperta del Po/21. Si sfiorano isole magnifiche e dimenticate, in questa terra abrasa dall’uomo e dalla natura: Rodi, Mafalda e la mitica Boschina, dove soggiornò Maria Calla.  Si può immaginare che il fiume sia destinato a galleggiare su qualsiasi disastro. E invece no, si può risalire addirittura all’anno mille per trovare uno scrollone straordinario

Alla scoperta del Po/21. Si sfiorano isole magnifiche e dimenticate, in questa terra abrasa dall’uomo e dalla natura: Rodi, Mafalda e la mitica Boschina, dove soggiornò Maria Calla.  Si può immaginare che il fiume sia destinato a galleggiare su qualsiasi disastro. E invece no, si può risalire addirittura all’anno mille per trovare uno scrollone straordinario

Il terremoto. Già, chi ci pensa al terremoto in un viaggio così. Chi riflette, veleggiando tra argini secolari immobili, che la pianura è solo un Adriatico interrato e l’Adriatico è un pezzo di zolla africana che preme contro le Alpi con forze terrificanti? Mancano solo due settimane al boato che farà ballare l’Emilia e non mi sfiora l’immagine di quella massa oscura che spinge nel profondo, sotto chissà quanti strati di ghiaie, conchiglie e balene fossili. Eppure c’ero passato solo tre anni fa, e avevo letto di botte tremende dal Medioevo in poi, e tutte proprio lì, tra Pavia, Modena e Rimini.
È inconcepibile che un tremore di terra possa sconquassare questo mare di sedimenti inerti. Immagini che il Po sia destinato a galleggiare su qualsiasi disastro. E invece no, mi arriveranno fiumi di smentite. Una in particolare, strappata a un archivio tedesco dalla bolognese Emanuela Guidoboni, appassionata memoria vivente delle catastrofi euro- mediterranee. Negli annali benedettini del Monastero di Disibodenberg, mi scriverà dopo la botta modenese, è ricordato il Po per un effetto straordinario causato dal sisma del 3 gennaio 1117, uno scrollone immane con epicentro veronese. Nel testo in latino l’ignoto monaco annota su pergamena: “Il Po si eresse così alto dal suo alveo da formare un arco, da sembrare una via fra la terra e l’acqua, e mostrò come quei flutti minacciassero la fine del mondo. E dopo essere rimasta in alto, l’acqua ripiombò nel suo alveo, con un rumore così grande che si sentì per miglia”.
Cosa sta scritto di quella catastrofe negli archivi dell’abbazia di San Benedetto Po, cugina di quella di Disibodenberg? Qualcuno ci metterà il naso? Ma non è a questo che penso il giorno della partenza da quelle santissime terre claustrali. Ho in mente altre inquietanti mutazioni. I devastanti gamberi rossi immigrati dalla Lousiana (già, dalle stesse acque del nostro Cat-Boat) che attraversano a migliaia, come un esercito, i campi tra la Secchia e il Po in cerca di nuove pasture. I veleni del Lambro che scendono da Milano, la siccità che avanza, il furto delle ghiaie che abbassa di metri il letto del fiume. Ho in mente catastrofi indotte dall’uomo e non dalla natura. Catastrofi evitabili, a differenza dei sismi.
La Secchia per esempio. Sbuca mormorando nel Po senza dire quello che ha dovuto subire a monte. Per saperlo bisogna risalirla settanta chilometri fin sotto l’Appennino e sporgersi dalla riva per trovare una voragine al posto del fiume, che in pochi anni è sprofondato di quindici metri e ora rumoreggia in fondo come lo Stige. L’hanno sfigurata i cavatori di ghiaia e ancor peggio hanno fatto quelli che hanno tentato di limitare il danno mettendole pezze di cemento. La Secchia, insisto, non il Secchia. La maschilizzazione dei fiumi italiani — l’egemonia imposta dal nome comune, “fiume”, su quello proprio delle ninfe e della naiadi — è stato la premessa della desacralizzazione e del loro indegno sfruttamento. Il Piave era “la Piave”, poi divenne maschio per motivi bellici e da allora venne derubato senza pietà della sua linfa.
Il “Gatto” sonda pianino le acque di questa terra magnifica e fragile, abrasa dall’uomo e dalla natura. Maialerie individuabili dall’odore a miglia di distanza. Prelievi con idrovore clandestine. Immensi pioppeti industriali. Terre di golena svendute per quattro baiocchi dal demanio, come quelle alle foci dell’Oglio, finite in mano all’industria del legno. La legge consente ai frontisti di prendersi quei terreni per un nulla. Basta un nulla osta del Genio Civile. E tutti qui sanno di funzionari che si sono fatti la villa al mare con quegli scellerati regali.
«Ehi, dov’è l’isola Rodi?» chiedo a un barchino di passaggio.
«Non capire!», risponde un giovanotto con inconfondibile “erre” albanese.
Stiamo sfiorando isole magnifiche e dimenticate. Rodi, Mafalda, e poi la mitica isola Boschina, dove soggiornò Maria Callas.
Da Boretto in poi la barca è diventata un torpedone, con passeggeri che mutano continuamente. L’armatore, Paolo Lodigiani, è sceso per volare in Perù, anche se non vede l’ora di tornare. Lo sostituisce al timone lo skipper riminese Fabio Fiori, grande annusatore di venti e dispensatore di citazioni letterarie. Ora abbiamo a bordo Irene Zambon da Este, silenzioso architetto che ci accudisce come bambini, e con lei il bolognese Valerio Varesi, giornalista che ha scritto libri affascinanti sul fiume.
All’imbarcadero di Revere Valerio ci racconta una storia tremenda di un tipo di Viadana che nel Ventennio era stato oltraggiato da un fascista di soprannome Barbisin e si era salvato per miracolo dalla morte. «Scappò in America e scomparve per quarant’anni. Poi tornò, e subito chiese del Barbisin. La gente, senza capire, gli diede l’indirizzo. Lui ci andò, trovò il Barbisin e lo stese con una picconata in testa, poi andò dai Carabinieri a denunciarsi. Perché l’hai fatto, chiesero gli uomini in divisa, sono passati quarant’anni. E l’uomo rispose: “Perché prima volevo vivere”».
Piove e tira vento, Fabio gronda acqua al timone, Alex sottocoperta suona “Down by the riverside”, il viaggio diventa un blues. Borgofranco, Bergantino, Sèrmide, Felònica, dove si impantanarono i tedeschi nella ritirata del ‘45.
Poi è di nuovo sole sfolgorante e una grande veleggiata verso Stellata e Ficarolo, dove secoli fa il Po infuriato cambiò strada e abbandonò la foce di Spina — il grande porto dell’ambra — per uscire in mare dove è oggi. Siamo in uno spazio ondivago, dove persino le regioni si confondono. Ora abbiamo la Lombardia a Sud e il Veneto a Nord, sulla riva sinistra. Il Delta si avvicina.
(21-continua)

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