Perché la Turchia vuole la «no fly zone» sulla Siria. Con un occhio ai kurdi

Vicino Oriente/ ENTUSIASMO DEI MEDIA TURCHI ALLE PAROLE DI CLINTON
Ankara vuole imporre la sua presenza militare in Siria e prevenire così la creazione di un’entità  autonoma kurda stile Iraq

Vicino Oriente/ ENTUSIASMO DEI MEDIA TURCHI ALLE PAROLE DI CLINTON
Ankara vuole imporre la sua presenza militare in Siria e prevenire così la creazione di un’entità  autonoma kurda stile Iraq
I media turchi hanno dato grande rilievo alle dichiarazioni della segretaria di stato Usa Hillary Clinton, domenica a Ankara. Al centro del colloquio con il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu era la situazione in Siria. «I nostri due paesi – ha detto Clinton – hanno lavorato in stretta collaborazione durante questo conflitto, ma adesso dobbiamo affrontare i dettagli del piano operativo che andremo ad attuare». I media turchi hanno sintetizzato dicendo che la segretaria di stato Usa ha promesso collaborazione contro i ribelli kurdi del Pkk e ha dato sostanzialmente il via libera alla creazione di una no-fly zone sulla Siria.
In realtà Clinton è stata possibilista sulla «zona di non sorvolo» pur con molte cautele, e soprattutto ha ripetuto la necessità che il dopo-Assad sia pluralista e non esclusivo appannaggio degli islamici. La Turchia sta sostenendo (anche economicamente) l’opposizione islamica in Siria. Al momento dunque, Turchia e Usa concordano sulla necessità di far cadere il presidente Assad – mentre sul dopo i giochi sono aperti. Il che naturalmente non esclude la possibilità di un intervento militare esterno e della creazione della no-fly zone. La Turchia preme e, in un modo che ricorda la Francia con la Libia, ha suggerito di essere disponibile a fare da «cavallo di Troia» e creare «zone di sicurezza» all’interno del territorio siriano per poter – così va la vulgata ufficiale – consentire una miglior gestione dell’enorme flusso di profughi che si sta riversando in Turchia dalla Siria. In realtà, è evidente che la Turchia cerca la scintilla giusta che faccia scattare l’intervento militare esterno. Ci ha provato, un mese fa, con un suo jet abbattuto non nello spazio aereo siriano (come sosteneva Ankara) ma internazionale e in circostanze non ancora del tutto chiarite.
La Turchia tiene alla no-fly zone per imporre una presenza militare in Siria e prevenire così la creazione di un’entità autonoma kurda – in altre parole, vuole evitare il ripetersi della situazione irachena, con la sua regione autonoma kurda. Inoltre per la Turchia è importante un intervento militare per consolidare la sua posizione all’interno della regione, con un occhio rivolto alla crisi iraniana (Ankara potrebbe offrirsi come avamposto militare dell’occidente in funzione anti Iran).
I kurdi siriani spaventano i turchi. Hanno liberato le loro città dalle forze centrali di Assad e stanno sperimentando, pur tra mille difficoltà, modelli di governance a partire dal basso, dal popolo. Propongono un modello di «autonomia democratica» come quello annunciato dai kurdi in Turchia: la convivenza di nazioni diverse all’interno di confini esistenti.
«La no-fly zone – dice al telefono Alan Semo, responsabile esteri del Pyd, Partito Democratico del Kurdistan (siriano), che non rientra nel fronte «ufficiale» e sponsorizzato dall’occidente dell’opposizione siriana – è un modo per occidente e Turchia di promuovere i loro interessi nella regione. Dovrebbe però essere approvata da tutta l’opposizione siriana. E questo è arduo».
Anche perché in questo momento l’opposizione siriana è più che mai divisa. «Gli Usa, la Turchia e gli stati del Golfo sponsorizzano un cambio di regime – continua Semo – per passare da una Siria controllata da islamici sciiti a una controllata da islamici sunniti, l’islam secondo Erdogan ndr]. I kurdi che si liberano e non sono ‘acquisibili’ né da Assad né dall’opposizione fanno paura all’occidente e alla Turchia perché appunto non controllabili».
La Siria inoltre è per gli Stati uniti (e per l’occidente) il terzo tassello da far cadere per poter avere il controllo dell’area (e poter così affrontare la questione Iran): rappresenta insieme a Iraq e Egitto quello che il politologo turco Haluk Gerger chiama il «cervello politico e ideologico del Medio oriente». Iraq e Egitto sono caduti: uno per diretto intervento (in nome dell’esportazione della democrazia) e l’altro dall’interno (anche se con qualche aiuto esterno). La Siria regge. E rappresenta anche per questo la soglia da oltrepassare per la creazione di una legittimità de facto dell’autorità Usa (che in Libia aveva avuto un ruolo defilato) e di un suo intervento a fianco di una fazione specifica per far cadere un regime.

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