I nuovi profeti della rivoluzione non somigliano più a Che Guevara. Non pensano che il potere nasca dalla canna del fucile. Semmai da twitter e dai cellulari. Il loro riferimento non sono più Lenin o Mao, e nemmeno Khomeini. Sono Gandhi, Aung San Su Kyi, Nelson Mandela. Predicano e fomentano la ribellione e la disobbedienza civile, non la guerra civile. Sono l’incubo dei dittatori di lungo corso, si sono rivelati capaci, contro ogni previsione, di scuotere e far crollare come castelli di sabbia regimi che sembravano di ferro. La loro “Internazionale” non ha nessun “centro”. Non è riconducibile a nessuna delle ideologie “forti” che avevano segnato il Novecento e nemmeno ai sussulti nazionalistici e religiosi che poi le hanno soppiantate. Non hanno mai preteso di “esportare” alcunché, nemmeno la democrazia. E comunque non alla maniera dei nostalgici di Bush.
I nuovi profeti della rivoluzione non somigliano più a Che Guevara. Non pensano che il potere nasca dalla canna del fucile. Semmai da twitter e dai cellulari. Il loro riferimento non sono più Lenin o Mao, e nemmeno Khomeini. Sono Gandhi, Aung San Su Kyi, Nelson Mandela. Predicano e fomentano la ribellione e la disobbedienza civile, non la guerra civile. Sono l’incubo dei dittatori di lungo corso, si sono rivelati capaci, contro ogni previsione, di scuotere e far crollare come castelli di sabbia regimi che sembravano di ferro. La loro “Internazionale” non ha nessun “centro”. Non è riconducibile a nessuna delle ideologie “forti” che avevano segnato il Novecento e nemmeno ai sussulti nazionalistici e religiosi che poi le hanno soppiantate. Non hanno mai preteso di “esportare” alcunché, nemmeno la democrazia. E comunque non alla maniera dei nostalgici di Bush.
Eppure c’è chi li ritiene i maggiori ispiratori, sia pure a distanza, dei più disparati movimenti che ultimamente hanno stupito il mondo. Dalle Primavere arabe ad Occupy Wall Street. Purché poi non finiscano per deluderlo anche loro. C’è chi li ha definiti «rivoluzionari riluttanti». Altri come una sorta di mosche cocchiere. Qualcuno addirittura sostiene che il loro posare come promotori delle Primavere arabe sarebbe una «interpretazione cinica e megalomane della storia». Il più noto di questi rivoluzionari di tipo nuovo è probabilmente Srdja Popovic. Era uno studente di biologia dell’Università di Belgrado quando assieme ad altri undici amici lanciò la campagna che avrebbe portato alla caduta di Milosevic. Sarà stato anche merito di altri fattori, comprese le bombe Nato.
Sta però di fatto che, da allora, il suo “Centro per strategie applicate nonviolente” ha fatto scuola in una quarantina di Paesi. Vantano il successo più strepitoso nella caduta del regime di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Piazza Tahrir sembra aver seguito alla lettera le loro indicazioni, tempestivamente tradotte in arabo, su come individuare il punto debole di un regime (nel caso egiziano i militari) e «fraternizzare con la polizia, mantenendo nel contempo la disciplina della non-violenza». Che poi alle elezioni abbiano vinto gli islamisti è un altro paio di maniche: la loro ricetta prescrive come si rovescia una dittatura, non cosa succede dopo. Non ha funzionato allo stesso modo in Libia e non sta funzionando per niente in Siria. A Yahya Shurbaji e Ghiyath Matar, soprannominato “piccolo Gandhi”, che distribuivano rose e datteri affrontando i soldati di Assad, è subentrato un orrendo massacro da tutte le parti. Non ha funzionato la “rivoluzione verde” in Iran. E in Cina nemmeno ci hanno provato. A Kiev dopo la rivoluzione arancione è tornato Yushchenko. Non si vede ancora quale protesta civile possa scrollare Putin.
Ma la vecchia talpa è paziente. Tra i maestri di Popovic ci sono veterani del pacifismo americano sulla breccia da decenni. Il settantaquattrenne George Lakey, infaticabile sostenitore di tutte le cause non violente — dai minatori inglesi ai monaci singalesi, e ovviamente le Primavere arabe — è tra i padri nobili di Occupy Wall Street («Pensano che sia anarchico, io semmai sono attratto dalla socialdemocrazia alla norvegese»).
Strategy for a Living Revolution,
il suo manuale per la conquista del potere in cinque fasi, senza spargimento di sangue, risale al 1973. Gene Sharp è un professore ottantacinquenne dall’aspetto timido e fragile che vive a Boston. Era amico di Einstein. Un suo libricino di 93 pagine, disponibile su Internet in 24 lingue, intitolato
Dalla dittatura alla democrazia,
potrebbe essere il prontuario di tutte le rivoluzioni non violente di questi ultimi anni. In Tunisia ed Egitto era diventato un best-seller, come negli anni Venti in Europa lo erano i manuali per la rivoluzione armata, e più tardi, in Asia e America latina le istruzioni per la guerriglia. Si articola in 198 “metodi d’azione”. Il punto 18 parla dell’importanza di bandiere e colori. Il punto 7 insiste sul ruolo di slogan, satira e simboli. I punti 20, 37 e 47 sull’importanza delle preghiere in pubblico, della religione e del raccogliersi a protestare nelle piazze. Manca solo il rock’n’roll, che aveva rivoluzionato la sua America negli anni Cinquanta, e fece crollare, secondo la brillante interpretazione di Tom Stoppard per il teatro, il muro del comunismo negli anni Ottanta e, in versione islamica, ha dato la squilla anche alle Primavere arabe. Ma altrove purtroppo è un’altra musica.
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