“La democrazia”, dice in esclusiva a “Repubblica”, “si conquista con l’umorismo”.Si chiama Srdja Popovic, serbo, quarant’anni. Si è fatto le ossa con il regime di Milosevic. Da quando ha fondato un centro per la strategia non violenta, tutti gli attivisti del mondo, dalle primavere arabe alle rivolte arancioni, vanno a scuola da lui
“La democrazia”, dice in esclusiva a “Repubblica”, “si conquista con l’umorismo”.Si chiama Srdja Popovic, serbo, quarant’anni. Si è fatto le ossa con il regime di Milosevic. Da quando ha fondato un centro per la strategia non violenta, tutti gli attivisti del mondo, dalle primavere arabe alle rivolte arancioni, vanno a scuola da lui
«Lui rovescia qualunque cosa, è uno che butta giù tutto». Masha sorride al suo uomo sotto la pergola di un ristorante sulla collina belgradese di Vracar: sta parlando di un maestro dell’eversione o di un marito pasticcione? Lui le prende le mani attraverso la tavola, urta ben due bicchieri e le inonda il vestito di vino bianco. Ridono, lui si scusa. Srdja Popovic, quarant’anni, snello, chiacchierone, accogliente, dichiara tre grandi passioni: i pesci (è laureato in biologia), la spazzatura (è stato consigliere governativo per l’ambiente) e Tolkien (ha creduto a lungo di essere uno hobbit). Ma la sua storia ne testimonia una quarta predominante: per la democrazia. È il direttore esecutivo di Canvas, Center for Applied Non-Violent Action and Strategies: qualcosa che visto da lontano appare grandissimo.Visto da vicino appare invece molto piccolo, un ufficietto con bagno e frigorifero, incastrato in una struttura commerciale semiprefabbricata a Novi Beograd, quattro impiegati fra cui lui stesso. Ma visto e analizzato per le sue imprese, assume proporzioni enormi. Candidato al Nobel, inserito da Wired nella lista delle «cinquanta persone che cambieranno il mondo» e da Foreign Policy in quella dei «cento personaggi più influenti del pianeta», Popovic è l’uomo che ha fatto dell’azione disobbediente un marchio e un insieme di procedure, un sapere esportabile e una materia di studio universitario. E di cose ne ha «buttate giù», in effetti: non solo bicchieri, dato che c’è la mano di Canvas nei rivolgimenti politici di paesi come Georgia, Ucraina, Libano, Maldive, Tunisia, Egitto. Questo marito goffo è quanto di più simile vi sia oggi alla figura di quello che in passato si usava chiamare “rivoluzionario professionale”.
La sua fede nonviolenta nasce dal pragmatismo: «Spesso il solo campo in cui un movimento civico non può vincere è quello militare: affrontare il potere su quell’arena è come fare a pugni con Mike Tyson. Fu l’errore del movimento contro l’apartheid in Sudafrica prima della svolta nonviolenta ed è oggi quello della lotta ad Assad in Siria». E ha solide basi accademiche, come l’analisi sistematica su 323 situazioni di conflitto fra il 1900 e il 2006: «Le campagne nonviolente — dice — hanno successo nel 53 per cento dei casi, quelle violente nella metà: 26». Popovic si concentra sulle conseguenze di lungo periodo: «La posta in gioco nella Prima guerra mondiale — spiega — era il territorio: vecchi imperi e Stati nascenti in cerca di spazio. Il risultato non fu che un’effimera ridistribuzione delle colonie. L’esito della Seconda, che opponeva le grandi ideologie, fu la Guerra fredda. La lotta di Gandhi, invece, fu l’inizio della fine del colonialismo. Il Black Power ha creato le premesse per un mondo governato anche da neri. Solidarnosc ha scatenato l’effetto domino che ha portato al crollo dell’Urss. Gli effetti delle strategie non violente sono più concreti sul lungo periodo: producono cambiamenti di civiltà».
Nonostante le ridotte dimensioni della struttura, Canvas ha fornito training e formazione ad attivisti di oltre quaranta paesi («Siamo dappertutto sul pianeta, come i piccioni. E come loro ci adattiamo a diversi climi e situazioni »), ma sono state le “primavere arabe” a metterlo sotto i riflettori, soprattutto dopo che uno dei leader di Piazza Tahrir dichiarò che il movimento egiziano non avrebbe vinto senza l’«addestramento» dei suoi dirigenti a Belgrado. Srdja non ama l’espressione «primavere arabe»: «Vorrei vederle sostituite da “Estate mediterranea”, un processo di reale crescita democratica che coinvolga anche l’Europa, connettendosi con movimenti come Occupy Wall Street o Indignados». E che cosa hanno questi in comune con le rivolte contro le dittature? «L’indipendenza dalla politica tradizionale e l’età: a Londra, a Madrid, come in Tunisia, o a Gerusalemme, in piazza ci sono per lo più giovani privati del futuro. Cambia poco se chi si batte per la sua dignità lo fa contro nemici molto visibili come i dittatori o più sfuggenti come le banche. È essenziale però che anche i movimenti dei paesi ricchi dicano che cosa vogliono: per ora sappiamo soltanto che cosa non vogliono. Intercettare bisogni sentiti e formulare una propria visione
del futuro è la via. In Serbia nel 2000 capimmo presto quello che volevamo ».
Canvas è derivazione naturale di Otpor (Resistenza), il movimento che rovesciò Slobodan Milosevic. In quella fucina si forgiarono i suoi strumenti concettuali: «Ogni nostro seminario inizia con qualcuno che dice “Fantastico, ma il vostro modello a casa mia non può funzionare”. Solo che noi non offriamo modelli, ciò che mettiamo a disposizione è la coscienza degli errori commessi. Otpor ha fatto tesoro di dieci anni di errori clamorosi: noi serbi in effetti siamo piuttosto lenti…». Si riferisce alle guerre?
«Ai nostri atteggiamenti: nel ’92 occupammo il rettorato e proclamammo una libera repubblica, tenevamo seminari, concerti e Milosevic era felice e soddisfatto. Noi cantavamo Lennon e lui governava. E armava i tank per far fuori i croati. Se ti limiti a occupare uno spazio e, peggio, se ti rinchiudi in un’identità, i duecento “intelligenti” che hanno capito tutto e si oppongono agli alieni, hai perso».
Otto anni dopo Otpor spiazzò il regime catturando il consenso con umorismo, strategie a basso rischio («intasare la città guidando lentamente, senza infrangere alcuna legge; o invitare la gente a far rumore sui balconi all’ora del tg per dimostrare che non li guardava: mio padre batteva una grossa latta d’olio, e i vicini invidiosi misero lo stereo sul balcone con su i Metallica»), cura della comunicazione e addirittura del marchio («Il pugno di Otpor, piuttosto leftist, no? Funziona: l’ho visto persino in Nigeria »), emarginazione dei violenti («Difendemmo la polizia dai tifosi, gli agenti videro tutt’altro da quello che raccontavano i comandanti e iniziarono a disubbidire. Se non riconosci l’uomo sotto la divisa e lo demonizzi, perdi»).
E da tutto il mondo piovvero inviti perché Otpor condividesse la sua esperienza, un’onda che dilagò fino ad alimentare sospetti — in verità sollevati dai regimi spaventati — che il movimento fosse una specie di creatura della Cia. Popovic ride: «Magari bastassero un po’ di dollari e quattro serbi pazzi: la democrazia nasce dalla sollevazione di grandi numeri. È facile sostituire un’élite con un’altra élite sul modello guevarista o su quello golpista: quella sì che è roba che si esporta». Canvas in effetti è quasi interamente finanziata dalla Orion, la seconda compagnia telefonica serba, proprietà di Slobodan Djinovic, vecchio compagno di lotte: «Lo parassitiamo anche — ridacchia Srdja — non pagando le bollette». Capire le ragioni dell’obbedienza e scardinarle, affrontare la paura, cambiare la percezione collettiva: «Fu importante anche fare del movimento qualcosa di molto cool, una moda: a un certo punto se non eri dei nostri non rimorchiavi… ». Così la generazione nata negli anni Settanta, a cavallo fra il ricordo del benessere titoista e le guerre di Milosevic, vinceva la battaglia per la conquista del senso comune e ridefiniva l’orizzonte dell’azione civica: «Tutti i grandi movimenti all’inizio sono percepiti come qualcosa di minoritario, strano e radicale. È accaduto anche a Greenpeace, ma ora non c’è governo che non abbia una politica ambientale. L’obiettivo per movimenti come Occupy è diventare mainstream». Ingaggiando solo le battaglie che possono essere vinte e procedendo per gradi: «Raggiunto un risultato, apparentemente minimo, ho i numeri per alzare il tiro e passare a strategie offensive di non cooperazione».
Spudoratamente sincero («Non si può negare che incontrare attivisti zimbabweani a Città del Capo sia un modo per rendersi bella la vita»), l’uomo che ha fatto dell’umorismo un’arma letale contro i dittatori non risparmia sé stesso: «Adoro le procedure codificate. Ne ho una che vale per la pesca e per le ragazze: primo, prendi tutto quello che puoi, secondo pesca almeno una preda da record, terzo ricorda che il peggior giorno sull’acqua è meglio del migliore al lavoro». Puoi parlare con lui una notte intera, di politica internazionale o di ricordi d’infanzia: ne esci comunque provocato, con la sensazione che il mondo sia in fondo più vasto di quanto pensavi. Un po’ più intelligente e disposto all’azione. Lui, intanto, ha da farsi perdonare da Masha quella battuta sulla pesca.
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