L’Ecuador concede l’asilo ad Assange

Ma Londra insiste: “Lo estraderemo” “No al salvacondotto”. Scontri davanti all’ambasciata   

Ma Londra insiste: “Lo estraderemo” “No al salvacondotto”. Scontri davanti all’ambasciata   

LONDRA — Dopo due giorni di scintille da infarto diplomatico, l’Ecuador ha concesso l’asilo politico a Julian Assange. Il giornalista australiano fondatore di WikiLeaks potrà continuare a vivere a tempo indeterminato nella sua stanza con vista sui magazzini superlusso di Harrods, inquilino di sua eccellenza Ana Albán Mora, ambasciatore di Quito a Londra. Per salvaguardare il suo impegno a estradarlo in Svezia, dove è accusato di stupro, il Foreign Office britannico ha tentato di impedirlo in tutti i modi: prima con la persuasione politica, poi con la minaccia di rispolverare una legge da Azzeccagarbugli per mettere in discussione un dogma della politica internazionale: la sovranità di uno Stato sulle sue sedi diplomatiche all’estero, l’inviolabilità dei suoi confini di rappresentanza istituzionale.
Ma la mossa senza precedenti del governo britannico, giocata in extremis,
è stata disinnescata dal ministro degli Esteri ecuadoriano Ricardo Patino: l’ha messa in piazza, denunciandola. In una conferenza stampa, Patino ha confermato che il suo Paese fosse ormai sul punto di prendere una decisione sul destino di Assange, avvertendo però di aver ricevuto una lettera da Londra con la «minaccia » di «prendere d’assalto l’ambasciata» se si fossero decisi a concedergli l’asilo politico.
Il braccio di ferro di Londra posava su un piedistallo legale cigolante: il Diplomatic and Consular Premises Act, una legge promulgata nel 1987 per consentire la liberazione dei locali dell’ambasciata libica a Londra, chiusa per la rottura delle reciproche relazioni diplomatiche. Un contesto completamente diverso, ma Londra ha lasciato intendere di poter utilizzare quella legge — pur augurandosi «di non dover arrivare a tale punto» — per dichiarare decaduti i privilegi diplomatici dell’ambasciata dell’Ecuador potendone così violare i confini per arrestare Assange.
Costretto dall’evidenza di una minaccia sproporzionata a compiere un mezzo passo indietro, il ministro degli Esteri britannico William Hague ha assicurato ieri sera che «non ci sarà nessun raid all’ambasciata dell’Ecuador». Ma ha anche avvertito che la Gran Bretagna non concederà mai un salvacondotto per consentire ad Assange di lasciare legalmente il Paese, e ha insistito sulla necessità a portare a termine l’estradizione del giornalista in Svezia, dove è sotto processo «per gravi reati» che «non c’entrano nulla con WikiLeaks».
E ora? Sotto le finestre dell’ambasciata una folla di attivisti canta slogan davanti a schiere di telecamere, e i ragazzi di Anonymous con le maschere sul viso annunciano un presidio a tempo indeterminato. Insieme a loro ci sono i giovani ecuadoriani, scesi in piazza per urlare il sostegno al proprio governo che Londra aveva provato a ferire nell’orgoglio: «Non siamo una colonia britannica », urlano, e «Il popolo, unito, mai sarà sconfitto». C’è qualche tensione con la polizia, tre giovani vengono arrestati, ma la partita è molto più complicata di una questione di ordine pubblico e manifestazioni. Mentre la Ue si tiene a distanza dalla matassa di rovi definendola «una questione bilaterale tra Gran Bretagna e Ecuador», l’ex giudice Baltasar Garzón, oggi avvocato di Assange, annuncia che se il suo cliente non riceverà il salvacondotto farà ricorso alla Corte internazionale di giustizia.
Assange, intanto, si gode la vittoria e un’ondata di sostegno senza bandiere su Twitter. Ricorda a tutti il dramma di Bradley Manning, il soldato Usa «detenuto senza processo da oltre 800 giorni» che ha aperto una voragine nei segreti militari rivelandoli a WikiLeaks. E annuncia che domenica parlerà in pubblico davanti all’ambasciata; l’ennesimo guanto di sfida sulla sua libertà precaria: se mette un piede in strada, lo arrestano all’istante.

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