Le ombre sull’arcobaleno

Sudafrica. Anche se fa inevitabilmente impressione che, quasi vent’anni dopo la fine del «white power» e la nascita della «rainbow nation» con tutti i suoi colori, possano ancora accadere massacri orribili come quello che ha lasciato 34 minatori (ovviamente neri) morti sotto il fuoco dei poliziotti (anch’essi, ora, prevalentemente neri), se si dovesse “scoperchiare” il Sudafrica episodi analoghi a quello intorno alla miniera di platino di Marikana saranno roba da ridere.

Sudafrica. Anche se fa inevitabilmente impressione che, quasi vent’anni dopo la fine del «white power» e la nascita della «rainbow nation» con tutti i suoi colori, possano ancora accadere massacri orribili come quello che ha lasciato 34 minatori (ovviamente neri) morti sotto il fuoco dei poliziotti (anch’essi, ora, prevalentemente neri), se si dovesse “scoperchiare” il Sudafrica episodi analoghi a quello intorno alla miniera di platino di Marikana saranno roba da ridere.
Il Sudafrica, grazie a Nelson Mandela, a suo tempo ha fatto il miracolo politico di passare da un sistema nazi-segregazionista a un sistema democratico a-razziale in modo relativamente indolore, una transizione mirabile ma fondamentalmente basata anch’essa, come quella troppo lodata della Spagna dopo la morte di Franco, e nonostante la «Commissione per la verità» guidata dal prestigio dell’arcivescovo Desmond Tutu, sul binomio amnesia-amnistia. Dopo quasi 20 anni, i nodi vengono al pettine.
Il Sudafrica dal 1994 di strada ne ha fatta. Molta. Ma i debiti pendenti sono tanti. In questi quattro lustri il Sudafrica è diventato da paese fuorilegge a un grande paese. Il paese-guida dell’Africa, l’unico paese africano a entrare di diritto, con Brasile, Russia, India e Cina, nel club dei Brics che reclama nuove gerarchie internazionali.
Ma troppi sono i debiti che il nuovo «Sudafrica arcobaleno» si è lasciato e si sta lasciando dietro, grazie al prestigio immenso di Mandela prima e poi alla stabilità politica (ed economica) garantita dal potere quasi monopolistico che l’African National Congress. L’Anc non è mai stato “comunista” come cercava di far credere il potere bianco anglo-boero. Ma la «Freedom Charter» del ’55 era un programma d’azione molto radicale che poi si è andata perdendo per strada in nome della riconciliazione nazionale e delle compatibilità con l’incipiente globalizzazione capitalista. Temi caldi come la nazionalizzazione delle miniere, l’espropriazione delle terre arraffate dalla minoranza bianca, case e servizi per gli squatter degli slum urbani, con gli anni sono diventati incandescenti. Come i salari da fame e le condizioni di lavoro infami della forza lavoro (soprattutto nera) che l’Anc ha abbandonato a se stessa e che il sindacato storico, il Cosatu, non sembra più in grado di rappresentare.
Il Sudafrica dal ’94 ha fatto tanta strada. Ma, dopo il miracolo politico di Mandela, ci si poteva – era legittimo – aspettare qualcosa di più e di diverso che il semplice inserimento nel circuito neo-liberista (e neo-colonialista) mondiale garantito dagli otto anni di Thabo Mbeki alla presidenza.

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