L’atleta olimpica morta sul barcone per l’Italia

La somala Samia aveva gareggiato a Pechino. «Voleva raggiungere Londra»

La somala Samia aveva gareggiato a Pechino. «Voleva raggiungere Londra»

NAIROBI — Samia Yussuf Omar, eroina somala salita alla ribalta delle cronache per aver partecipato alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, è morta otto mesi fa al largo delle coste maltesi. Il barcone su cui era salita per raggiungere l’Italia assieme ad altri profughi ha vagato per il canale di Sicilia e il viaggio della speranza per molti dei passeggeri si è tramutato in tragedia. Il suo sogno era raggiungere Londra per partecipare ai recenti Giochi Olimpici ed era già stata indicata — anche se ancora provvisoriamente — dal comitato olimpico somalo. Dopo la sua morte è stata scelta un’altra atleta, Zamzam Mohammed Farah, che ha corso i 400 metri, arrivando con 30 secondi di ritardo sulla vincitrice della sua batteria.
La drammatica fine di Samia è saltata fuori qualche giorno fa, durante una riunione a Mogadiscio del comitato olimpico somalo. È stato Abdi Bile, un connazionale di Samia, oro per aver vinto i 1.500 metri ai mondiali di Roma del 1987, a rendere nota la notizia: «È morta per raggiungere l’Occidente», ha spiegato.
L’allenatore di Samia, Mustafà Abdelaziz, raggiunto al telefono a Mogadiscio, racconta in un inglese piuttosto stentato: «Sapevo della sua tragica sorte perché i sopravvissuti di quel viaggio avevano compilato un elenco dei morti e ce l’avevano spedito. Conoscevo bene la ragazza. Non solo correva ma era anche un’abile nuotatrice e giocava a pallacanestro. Infatti a Pechino sembrava dovesse partecipare alle olimpiadi per il nuoto, poi, invece, l’abbiamo presentata in atletica leggera». Avrebbe voluto rappresentare la Somalia a Londra ed era partita per questo. Per motivi economici non sapevamo se avremmo potuto inviare qualcuno ai giochi. Lei aveva proposto di raggiungere l’Inghilterra da sola. Se non fosse saltato fuori il biglietto aereo lei sarebbe già stata pronta lì».
Mustafà parla di una ragazza coraggiosa, aiutata dalla sua famiglia e dai suoi amici: «Abbiamo fatto una colletta per pagarle il viaggio — ricorda —. La madre, commerciante di frutta al mercato di Hamar Wein a Mogadiscio, ha venduto perfino un piccolo terreno. È partita piena di speranze e di sogni di gloria. Pensavamo di vederla in televisione durante le gare».
A Pechino Samia aveva corso il 200 metri in 32 secondi ed era arrivata ultima, ma aveva materializzato con la sua felicità mostrata in ogni momento, prima durante e dopo la competizione, il motto di Pierre De Cubertin: «Non è importante vincere, ma partecipare».
«Quando abbiamo saputo della sua morte siamo rimasti shoccati e increduli — commenta Mustafà —. Sappiamo che quello verso l’Occidente è un viaggio rischioso, ma non ci aspettavamo che fosse lei a perdere la vita».
A Mogadiscio, dove la guerra non conosce tregua da oltre vent’anni, non ci sono strutture sportive dove allenarsi e lo sport, in un luogo dove comandano le armi, non è certo una priorità, deve essere difficile per un atleta prepararsi alle gare. «È vero, ma lei, come i due atleti che ci hanno rappresentato a Londra, oltre a Zamzam anche Mohammed Hassan Mohammed, sono spinti da un’enorme passione. Per l’atletica Samia usava il vecchio stadio del Coni nella città vecchia a Mogadiscio. Ma si allenava in mare, al Lido, per le competizioni di nuoto».
Chiamare stadio quello del Coni è una parola grossa; la struttura, infatti, è stata devastata dalla guerra e per anni ha ospitato un campo profughi: «È vero — condivide l’allenatore — ma non c’era nulla di meglio. D’altronde l’esperienza di Pechino aveva talmente entusiasmato Samia che anche se all’ultimo momento non fosse stata scelta per rappresentare avrebbe voluto essere presente ai giochi come spettatrice. Era convinta che gli atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi possono avere i biglietti gratis».
Massimo A. Alberizzi

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