Ilva, così Roma ignorò le denunce dei carabinieri

I veleni fotografati per un mese: il ministero dette lo stesso l’ok. Nel mirino le regalie dei lobbisti di Riva   

I veleni fotografati per un mese: il ministero dette lo stesso l’ok. Nel mirino le regalie dei lobbisti di Riva   

TARANTO — Un rapporto dei carabinieri del Noe svelava già nell’aprile dello scorso anno l’imponente volume di polveri e fumi pericolosi che dai reparti dell’Ilva piovono sulla città. Quel dossier, munito di foto e video, venne anche girato al ministero dell’Ambiente. Proprio in quei giorni nelle stanze del dicastero, all’epoca di Stefania Prestigiacomo, imboccava il tunnel finale la procedura per il rilascio dell’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, alla grande fabbrica dell’acciaio di Taranto. Autorizzazione che è al centro di una procedura di revisione che oggi prenderà il via per esaurirsi entro il 30 settembre, come promesso dal ministro Corrado Clini.
Di quel rapporto del Noe, però, nessuno tenne conto il 4 agosto del 2011 quando venne definitivamente firmata l’Aia al termine di un iter lunghissimo. Eppure nell’informativa vi erano sequenze sin troppo eloquenti. I militari per quaranta giorni avevano monitorato lo stabilimento siderurgico, puntando telecamere e obiettivi su acciaierie e cokerie e sul cosiddetto slopping, ovvero le nuvole di polvere rossastra che si alzano dai reparti durante la produzione. Quegli sbuffi inquietanti a Taranto sono familiari. Anche perché quelle polveri finiscono nelle case, nelle strade e persino sulle tombe del vicino cimitero. Dall’1 aprile al 10 maggio del 2011 i carabinieri documentarono 186 episodi di slopping. Tutto finì nel rapporto che è ampiamente citato dal gip Patrizia Todisco nel provvedimento di sequestro decretato lo scorso 26 luglio per i sei impianti dell’area a caldo del siderurgico.
Nella procura di Taranto ora ci si chiede quale strada abbia preso nella primavera del 2011 il dossier dopo essere approdato al ministero. Nella migliore delle ipotesi dimenticato in un cassetto, oppure volontariamente sottovalutato. Ma la circostanza fa il paio con i sospetti di pressioni da parte di uomini Ilva per ottenere il semaforo verde all’indispensabile autorizzazione arrivata ad agosto scorso. L’interrogativo rientra nell’inchiesta bis curata dal pool di inquirenti che ha già inquadrato l’inquinamento targato Ilva. Questo troncone ha acceso i riflettori sul sistema che ruotava intorno alla figura di Girolamo Archinà, l’ex potentissimo responsabile dei rapporti istituzionali di Ilva. Archinà è il fulcro di un’informativa della Finanza, sfociata nell’iscrizione nel registro degli indagati di tredici persone tra politici e funzionari pubblici. In quelle pagine il dirigente è tratteggiato come l’uomo azienda in contatto con i poteri forti della città e non solo. Con a disposizione un budget illimitato dal quale avrebbe attinto 10.000 euro per corrompere un perito della procura. Ma anche per distribuire regalie a destra e a manca. Un pressing, quello di Archinà e dei lobbisti ingaggiati da Ilva (tra i quali il responsabile della comunicazione Alberto Cattaneo), non sempre illecito ma ficcante e produttivo.
Con quel sistema i pm ritengono che Ilva abbia tentato di incidere sui controlli e sul lavoro della procura, che alla fine però ha ugualmente portato al sequestro degli impianti e ai domiciliari per il re dell’acciaio Emilio Riva. Sulla grande fabbrica continua a pendere come una spada di Damocle lo stop alla produzione. Per questo c’è grande attesa per le motivazioni del provvedimento con il quale il Tribunale del Riesame ha confermato il sequestro dell’area a caldo e che dovrebbero essere depositate oggi. Il nodo cruciale è la facoltà d’uso e la conseguente attività produttiva. La conferma del niet alla produzione potrebbe scatenare nuovamente le proteste che si sono attutite dopo il blitz tarantino dei ministri Passera e Clini. Sul piatto sono stati lanciati fondi per abbattere l’impatto ambientale dell’Ilva e per questo il procuratore generale di Lecce Giuseppe Vignola aveva parlato di vittoria per la procura. Dalle sue dichiarazioni sembra prendere le distanze il procuratore di Taranto Franco Sebastio che dice di non «amare i termini guerrieri» e aggiunge: «Come magistrato voglio vedere i fatti e non partecipo alle concertazioni. Noi dobbiamo accertare se ci sono stati reati e perseguirli. Il resto non ci compete».

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