Per provare a «ritrovarsi insieme» è necessario ricostruire un senso comune devastato da vent’anni di neoliberismo. E dopo porsi il tema della rappresentanza In un articolo recente Paolo Ferrero ha lanciato un appello a quanti non si riconoscono nel governo Monti e nel montismo di sinistra del Pd perché non vadano disperse queste forze e queste soggettività d’opposizione, ma si trovi una formula – una coalizione o una federazione di partiti a sinistra del Pd – che rappresenti l’opposizione nel sociale e soprattutto, nell’eventualità di una tornata elettorale anticipata, la rappresenti in Parlamento.
Per provare a «ritrovarsi insieme» è necessario ricostruire un senso comune devastato da vent’anni di neoliberismo. E dopo porsi il tema della rappresentanza In un articolo recente Paolo Ferrero ha lanciato un appello a quanti non si riconoscono nel governo Monti e nel montismo di sinistra del Pd perché non vadano disperse queste forze e queste soggettività d’opposizione, ma si trovi una formula – una coalizione o una federazione di partiti a sinistra del Pd – che rappresenti l’opposizione nel sociale e soprattutto, nell’eventualità di una tornata elettorale anticipata, la rappresenti in Parlamento. L’intento è lodevole, la paura della dispersione di un’area d’opposizione è fondata, il compito è difficile. Bisogna inoltre riconoscere a Ferrero il pregio di parlare chiaro e di non tergiversare.
Ora, io credo che sia più che mai necessario, proprio per pensare ad una politica d’alleanze e, azzarderei, d’egemonia verso strati sociali e pezzi di società civile anche distanti dalla sinistra radicale, prima di tutto tornare a discutere teoricamente tra quanti condividono alcune opzioni di fondo proprio in vista di un «ritrovarsi insieme». Senza un confronto teorico, anche serrato, su alcuni temi tanto economici quanto politici, si rischia, infatti, una riedizione di coalizioni tenute insieme solo da negazioni e da opposizioni alla destra vincente, coalizioni destinate alla breve vita delle amicizie estive o all’avvelenata convivenza di vecchi coniugi insoddisfatti.
Voglio allora provare, come compagno di base, o come si diceva una volta come cane sciolto, ad azzardare alcune osservazioni sull’articolo di Ferrero che possano essere un modo di attuare un confronto e un invito a che, nel dibattito, intervenga anche qualcuno di più rappresentativo del sottoscritto che a stento rappresenta se stesso.
Il dato di fondo messo in rilievo da Ferrero è che il governo Monti non è un governo meramente tecnico né occasionale, bensì costituente. Costituente nel senso che le decisioni prese da questo governo vanno nella direzione di decisioni autoritative che cambiano scenari legislativi, equilibri dei poteri e persino parti della Costituzione e questo condizionando anche la politica del futuro. Costituente, a quanto capisco, anche nel senso economico e sociale in quanto ogni provvedimento di tagli di spesa o di politica fiscale contribuisce a modellare una diversa composizione sociale del paese e un’immagine del futuro. Su questa accezione del termine «costituente» occorrerebbe soffermarsi poiché presuppone una precisa lettura della fase attuale della crisi.
Una convenzione andrebbe, a questo punto accettata, per poter discutere «a sinistra», usando tutti, convenzionalmente, gli stessi termini con le stesse implicazioni. La convenzione che propongo è di utilizzare il marxismo come strumento analitico comune, facendo finta che il marxismo funzioni ancora nelle sue parti essenziali come teoria descrittiva e interpretativa generale della «forma» capitalistica, salvo poi a trovare vie d’uscita e strumenti analitici in parte diversi. E quando dico facendo finta, mi riferisco agli indubbi punti ciechi di una teoria elaborata circa 200 anni fa, per capire un modo di produzione che ha una velocità innovativa inusuale rispetto ai modi di produzione del passato. Il marxismo, però, ha il pregio di essere una delle poche teorie che ha una visione «globale» e sistemica della società moderna ed inoltre è «uno strumento di famiglia» e almeno sappiamo come funziona e cosa vuol dire.
Dunque dietro l’uso del termine «costituente» c’è l’idea che la destra abbia trovato nel governo Monti l’espressione adatta per portare avanti il suo programma di «rivoluzione conservatrice». Proprio sul giudizio da dare sulla «rivoluzione conservatrice» e quindi sulla politica del governo Monti, intervenendo tempo fa su questo quotidiano, ponevo la questione in termini di alternativa tra una visione del governo come momento «bonapartista» di equilibrio tra varie frazioni del capitalismo italiano e invece come vera e propria operazione neo-coloniale. Penso sia una discussione di non poco conto e che va affrontata con gli strumenti dell’analisi economica e della composizione di classe, come si diceva una volta, proprio per evitare facili e superficiali slogan.
Affermare che ci troviamo in una fase «costituente» in senso economico presuppone una vera e propria progettualità futura sull’assetto dell’Italia nell’ambito della divisione internazionale del lavoro. Un assetto che potrebbe prevedere la limitazione delle tutele del lavoro salariato, una riconversione, secondo il modello della fabbrica diffusa sul territorio, del modello industriale pesante e la valorizzazione del lavoro autonomo e precario come soluzione del nuovo esercito industriale di riserva giovanile. Si tratta di un modello economico recessivo rispetto al grande capitale europeo e che di fatto penalizza fortemente l’innovazione e la riconversione della produzione in direzione di una politica di servizi e di beni sociali.
Una tendenza di tipo neo-coloniale, che sembra di fatto prendere corpo con i recenti provvedimenti di tagli di spesa e di vendita del patrimonio demaniale statale, se condivide con la prima ipotesi alcuni scenari di fondo, accentua, però, lo scenario di una dismissione della funzione dello stato sociale, riduce parti della stessa sovranità nazionale, arrivando ipotizzare massicci licenziamenti nell’ambito dell’apparato burocratico statale e, non a caso, conduce una battaglia, con accanimento degno delle migliori vendette accademiche, contro un sistema d’istruzione come potenziale veicolo di mobilità sociale.
Ferrero, dopo aver sviluppato alcune idee su una lettura descrittiva della situazione italiana, al quinto punto del suo ragionamento compie una sorta di salto logico, mostra una sorta «d’immediatismo politico», ancora un’espressione della vecchia politica per indicare una volontà di tradurre un’analisi politica articolata in un obiettivo politico di corto respiro. Chè tale ci sembra, in verità, un accenno alle ragioni di un’opposizione al governo per poi sfociare nella necessità di dare una risposta di tipo elettorale, e per giunta a breve termine, a tutto ciò. E non per svalutare lo snodo elettorale ma perché mi sembra che Ferrero sottovaluti che oltre vent’anni di neoliberismo selvaggio (per di più nella versione farsesca e sottoproletaria del berlusconismo) pongono alla sinistra radicale un doppio e quasi alternativo compito. Un primo compito è quello della rappresentazione del mondo nell’epoca della globalizzazione, il secondo compito è quello della rappresentanza.
In sintesi la rappresentazione deve essere un tentativo di lunga durata (una o due generazioni) di ricostruire un senso comune (non un’opinione comune, quella la si può trovare già nei bar), una diversa visione del mondo legata non più all’egoismo proprietario della vulgata neo-liberista ma ad una radicale trasformazione antropologico-politica delle priorità e dei modi di organizzare la vita produttiva e riproduttiva umana. In questo senso il concetto di beni comuni può svolgere un ruolo concettuale notevole (da indagare e spiegare). L’altro problema è quello della rappresentanza, ossia nel breve periodo, trovare il modo di dare presenza parlamentare a questa opposizione sociale e al senso comune diffuso di trovarsi di fronte ad una perdita di senso di una «forma» sociale e ad una crisi epocale e non congiunturale.
Ho l’impressione che se questi due aspetti non entrano entrambi in quello spazio pubblico della sinistra che Ferrero auspica rischiamo di parlare al 3-4% dell’elettorato, il che, forse, per chi ha scelto di continuare ad essere un compagno di base può scaricare la coscienza identitaria ma non più di prendere, infine, una tessera di qualche gruppo bordighista o consiliarista, almeno custodi integerrimi della filologia marxista.
* Redazione rivista «il Tetto»
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