FIAT, IL TUNNEL DELL’ITALIA

«Le cose che costruiamo ci rendono ciò che siamo», dice il claim della nuova Fiat Panda. Ma se i 2.150 operai di Pomigliano d’Arco stanno a casa da ieri fino alla fine del mese per cassa integrazione, vuol dire che non sono nulla? E che fine faranno i restanti dei circa 4.500 lavoratori pre-Marchionne non ancora riassunti nella fabbrica campana, tra cui gli iscritti alla Fiom non ripresi per discriminazione, come recita una sentenza di primo grado del tribunale di Roma? Chi sono tutti loro, in un paese senza memoria e di fronte a una crisi che non è ciclica, ma di sistema, un tunnel di cui solo il governo tecnico sostiene di vedere la fine?

«Le cose che costruiamo ci rendono ciò che siamo», dice il claim della nuova Fiat Panda. Ma se i 2.150 operai di Pomigliano d’Arco stanno a casa da ieri fino alla fine del mese per cassa integrazione, vuol dire che non sono nulla? E che fine faranno i restanti dei circa 4.500 lavoratori pre-Marchionne non ancora riassunti nella fabbrica campana, tra cui gli iscritti alla Fiom non ripresi per discriminazione, come recita una sentenza di primo grado del tribunale di Roma? Chi sono tutti loro, in un paese senza memoria e di fronte a una crisi che non è ciclica, ma di sistema, un tunnel di cui solo il governo tecnico sostiene di vedere la fine?
La Fiat di Marchionne si è fermata a Pomigliano. Trasformato in uno stabilimento modello, tant’è che il prossimo 7 novembre sarà premiato a Lipsia da una giuria internazionale, il migliore fra oltre 700 nella produzione snella, il sito è l’altra faccia della crisi del primo gruppo industriale italiano. A Pomigliano è finita in cassa integrazione gente che ha detto sì a più dure condizioni di lavoro e a meno diritti, pur di lavorare. Che ha creduto nel progetto di Marchionne, ex Fabbrica Italia, e ora si ritrova di colpo a casa perché i mercati non tirano come pianificato dal management. Ma non può essere solo colpa della finanza o della recessione.
L’amministratore delegato ha detto di tutto in questi mesi. Tranne che una Fiat senza Chrysler perde soldi, ma una Fiat con Chrysler perde centralità nello sviluppo, nella ricerca e negli investimenti. Ha annunciato che due fabbriche su quattro in Italia sono a rischio chiusura, poi a crisi peggiorata ha detto che una sola è a rischio; ha evocato imprecisate «nuove condizioni» per lasciare la Fiat in Italia, poi ha avuto un incontro con Monti definito «perfetto».
Il presidente del consiglio e Passera vedono vicina la fine della crisi, Fornero chiede alle imprese di investire. Marchionne annuncerà cosa fare, compresa la chiusura di «un» impianto dopo i conti del terzo trimestre, il prossimo 31 ottobre. E prima, il 9, ci sarà l’appello contro la sentenza che obbliga la Fiat ad assumere a Pomigliano anche operai iscritti alla Fiom. Se sarà un’altra sconfitta per l’azienda, il sospetto che il manager mescoli a suo uso conti in rosso e decisione della magistratura è forte.
Anche altri produttori di automobili europei stanno male, tra cui le tedesco-americane Ford e Opel. In Francia, c’è una coincidenza che sembra una maledizione: negli ultimi trent’anni, ogni volta che un costruttore locale annuncia la chiusura di una fabbrica – oggi Peugeot ad Aulnay, nel 1997 la Renault a Vilvoorde in Belgio, nel 1983 la chiusura della Talbot – al governo ci sono sempre i socialisti. Ma se Monti dice che Marchionne è libero di fare quel che vuole, Hollande almeno si è messo di traverso per Aulnay. L’ottimismo sul futuro prossimo del nostro governo tecnico non è neanche della volontà.

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